Parvenu

Parvenu. Giuseppe Colombo, la matematica del visibile e l’emozione della linea.

 

 

 

Da quando conosco Giuseppe Colombo, sono accadute tante cose, per primo, il variare dei suoi cicli, che, mi hanno sempre incuriosito per la loro originalità e virtuosismo. Disegnatore, ove ne riconosci l’asciuttezza della linea ma la complessità di una figurazione colta, che trova confronti con la tradizione non in senso retrò, ingiusto timbro dei più ingenui opinionisti d’arte, ma come superamento e fondamento dei mezzi atavici. Con Giuseppe, siamo coetanei, ma distanti per territori e linguaggi, però , in comune credo abbiamo molte cose, prima di tutto, il dilemma del figurare con carta e matite, pennelli e tele…mezzi poveri ma aristocratici per eccellenza. Vado sempre a vedere le sue mostre, in quanto ne riscopro sempre delle affinità e sorprese . Egli, lavora con una ostinata resistenza, per una figurazione, che ad oggi, si riscopre sempre più ostile alle mode che hanno pervaso l’arte è la rappresentazione in genere, momento storico, in cui il bombardamento delle immagini, contaminano la nostra quotidiana e preziosa libertà del fare. Nella sua, oserei dire, continuità di talento, termine coniato da critici italiano, credo Arcangeli, e poi rappreso da appassionati seguaci, e in parte per quella filologia che vede rimandi ancestrali ai maestri, Velasquez, per la sua eterna metafisica e libertà gestuale della materia pittorica, e in quella di Caravaggio iconoclasta, a finire, per dirla nella rivoluzione contro i modernisti, di Giorgio DeChirico, padre della moderna metafisica. Il realismo o figurazione del visibile, o se vorremmo definirla nuova oggettività, trova dilemma nella propria esistenza. In quel raccontarci/non raccontarci di Giuseppe, vi è un tempo cristallizzato, quello, dell’incanto estatico, non per immagine che viene riprodotta, ma sottratta alla realtà, spesso cruenta, e lasciar spazio all’interiorità. Cresciuto nella terra guccioniana, stimolo a molti giovani della nostra generazione, la figura di Piero Guccione, rassicurante quanto rigorosa, avrebbe da sempre unito le sensibilità più elettive del territorio, che si tratti di giovani o meno, e su questa tensione, Giuseppe Colombo, non è stato da meno nel confrontarsi e dare poesia per emozionalità di immagine, quella iblea, delle contee, ma che rimane coinvolto nella sostanza, tra natura e luce, senza alcun riferimento di timbro folkloristico ma asciutto e impoverito nella grande poesia, quella di cui, per un luogo, lo sguardo di un artista ne trae l’essenza. Sembra una grossolana semplificazione ma, non c’è nulla di più autentico della natura selvaggia come direbbe qualche filosofo, ma Giuseppe questo lo sa bene, allontanarsi dal mondo facile delle grandi metropoli ove quel respiro campestre e spaziale, gli sarebbe da meno. Egli, in questa iconologia oserei quattrocentista e rivisitata in un segno nuovo, quello di un contemporaneo consapevole, credo lo porti alla riluttanza dei clamori e dei facili riflettori modaioli. Il suo, è un “mercato lento”, come del resto chi, produce nella qualità di un raro manufatto, ne so qualcosa anch’io. Questo suo figurare dunque, cerca cose semplici, ove per semplicità, si dà spazio alla complessità, forse, di quel cosmo che è infinitesimale ma che ci travolge nel macro del suo pulviscolo. I suoi cieli rosati, toni vibranti e delicati, delinea arbusti come corpi nella sua estatica essenza. La sua , non è nudità di corpi come arte di impegno sociale, per lui essere nudi nelle immagini, ha lo stesso concetto tra figura e vegetazione, palpitare nella sua ritrovata catarsi; E ne vedo con grande stupore, il disegno, fatto di linee taglienti come lame affilate, ricordarmi le forme del Pisanello, come per ricordarmi, che la natura e la bellezza dell’arte, quella dei maestri, sono racchiusi in una sola cosa. Cosa sia , pochi lo hanno compreso. Quando Dalì, studiava i disegni di Ingres(tra i primi ad utilizzare la matita in senso lato), ne rimarcava la probità dell’arte. E in questo pensiero, nel ricordare Giorgio Morandi, “nulla è più astratto del visibile”, dalle sue nature morte(anni in cui si riscopriva un ritorno all’ordine ), le sue lastre d’acqueforte, scalfite, in trame fitte, erano uno sconfinato sbavare del disegno, come valso per il siciliano Nunzio Gulino, incisore per eccellenza. In questo mistero e verità, il disegno è proprietà prima che materia, concretezza prima che poesia. Giuseppe, ha dipinto pure tanto, e in in questo territorio, che sembra facile calpestìo per le ingenue seduzione delle immagini, non vi è l’ovvio, tutt’altro, la sua cifra, è così raffinata, da sconfinare nel metafisico, nell’immobile e nel silente onirico, inventando una realtà nuova e trasognata. Suoi contemporanei, mi ricorda molto, un grande artista romano, scomparso di recente e sfortunatamente perché giovane, Angelo Fabbri, un pittore di tutta classe ma dimenticato dalla critica. I dipinti di Angelo, che sanno di novecentismo, ritrovano bellezza e originalità per i nostri giorni. Il fare pittura insomma, non è seguire le mode, la pittura non ha il progressismo della linea costante, la pittura è bellezza e consapevolezza storica, purché non sia retorica. La Sicilia dei guccioneschi ne è piena, e se Giuseppe Colombo sia cresciuto accanto al Maestro, ne ha preso la parte migliore, non del passivo plagio di stile apparente, ma la migliore condizione della nuova personalità. I suoi temi, spesso giardini, sono istanti emozionali, dove passa quella poesia fatta non di immagine, ma di fulgido turbamento, coglierne il trascendentale. Al di là, dei suoi d’Après(rappresentazioni di antichi dipinti), ricordare quelli di Piero Guccione sui maestri del rinascimento, per Giuseppe, diventano simbologie e teoremi, non per studio ma per porci dinnanzi agli interrogativi: se davvero l’arte oggi, è una questione morale. Ma chi conosce davvero cosa sia l’arte, se non attraverso la consapevolezza storica, gli artisti veri, ne fanno un personale dilemma e ricerca. Ciò, Piero, lo sapeva bene, che la Bellezza di oggi, quella ricercata quanto rarefatta, ci deriva solo dai maestri del passato, che ci hanno indotto nella cosiddetta “continuità del talento”, in cui poetica, incentrata sull’ espressione personale, diventa il mistero, come all’essere uomini con tutte le ragioni e le caducità. Insomma, l’artista come emblema della questione morale, intrisa di forze creative.
Lo sbavare di una fuliggine, ora nei carboncini, ora nelle fitte quinte nere, il suo segno, arriva nell’essenza delle cose, come pittura copre stesure di tela, e mai compiaciuto. Nelle sue nature morte, siano esse disegni o pitture, sembrano donarci una “matematica del visibile” che lascia spazio all’invisibile, e lo fa con grande sapienza, quella dell’homo faber, del maestro, forgiare linea e materia, costruendo l’immagine, che non è un’immagine come sembra, ma singolare esperienza del visibile, di quel mondo indicibile, quello che non ci appare come appare a chiunque, ma è fatto di una disarmante semplicità, per essere nel cuore dell’universo.

 

 

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