Parvenu

PARVENU. “Emanuele Giuffrida, nello sconfinamento della pittura realista”

Una cosa devo dirla subito, ogni volta che vedo un lavoro di Emanuele Giuffrida, vivo una scena sempre più diversa dall’ultima, e più viva. Come gli atti di un teatro, questo pittore, amico perlopiù, che conosco sin dalla sua giovinezza, mi tiene sospeso nell’improvviso attonimento, quello di inscenare temi, che sembrano inediti e invece, riguardano un vissuto, di chissà quante altre volte lo abbiamo rivisitato, e nel luogo più livido della nostra quotidianità. Ed egli, lo fa con specificità e iconoclastia, non facile per un artista figurativo, pur rimanendo un registro fotografico congelato, come vissuta memoria, ma palpitante di pittura, quella di qualità, quella dei maestri per intenderci, quella che restituisce vita, non per tecnicismo ma per un quid intuitivo e personale che riguarda ogni poeta e artista. Si sa, la fotografia è la morte del tempo, Emanuele, la usa ma la esorcizza con la pittura, per dare vita ad una emozione che, gli è rimasta, forse, in un preciso istante della sua vita, ma che non va più via, e lui, lo fa come uno scrittore racconterebbe le sue memorie. L’artista ovviamente, con il segno del disegnatore e del pittore, immetterci in un fitto racconto nuovo, il mistero della pittura. Conosco Emanuele da un ventennio. Abbiamo condiviso lo studio insieme nel lontano 2006, quando lui, appena terminata l’accademia a Palermo, luogo di forti stimoli per i giovani rispetto alla mia periferia siciliana di Gela, mi conosceva già da tempo, sia per le mie affermazioni, sia con le sue chiare intenzioni di confrontarsi e scegliere con lucidità dei parametri che ad oggi, lo avrebbero visto crescere, giustamente. Ma io, ho sempre saputo che ce l’avrebbe fatta, insomma, entrare nel complesso mondo dell’arte, la pittura poi…Complessa per le sue questioni morali, da un lato legata al realismo, se di sociale si vuole parlare, ma complessa pure nella fluidità del mercato, sempre più volubile. La pittura, si sa, quella buona, si vende sempre. Ma qui, tutt’altro che accondiscendenze di mercato, Emanuele ha scelto sempre “vie difficili”, questo gli fa onore, perché scegliere il percorso più difficile oggi, trova nel figurativo, non poche difficoltà. Ricordo pure, quando in studio, un secondo piano del centro storico “chianu surfareddu”di Gela, ci si fermava fino a tardi, e spesso, pranzare e cenare li, tra gli odori dei colori e le tute imbrattate, come tutto poi, fosse così naturale, tra lavoro e cibo, senza formalità e di portamento operaio. Tra l’altro, si ricevevano pure visite di amici, quelli filtrati s’intende, per chiacchierate sull’arte , lo studio per me era questo, socialità e passione, che ad oggi non smentisco.
Ma torniamo ai temi, e ciò a cui ci mette dinnanzi questo genialaccio di pittore. Temi ostici e quasi impenetrabili. Sembrano descrivere un attimo, ma in quell’attimo c’è mistero, sospensione . Forse un Hopper mediterraneizzato? Un Lopez Garcia gelesizzato? Nessuno dei due, lui è Giuffrida, perché scrive pagine nuove di figurazione, dipinge quasi come disegnasse, con asciuttezza e velatura quattrocentesca. E diversi i suoi cicli, che, ci riconducono ad un comune denominatore, la vita quanto alla morte. E in questo, c’è il suo dissacrante realismo, acre e diretto, senza veli. Ma perché, non parlare invece di cose che piacciono a tutti? Un bel paesaggio col muro a secco o una facile marina pastellata dei plagiatori guccioneschi? Emanuele intanto, è di nuova generazione, contaminato da un’era più cosmopolita del contemporaneo e pure fedele al suo leitmotiv, quello non contaminato dalle mode, ma attento osservatore e consapevole. Egli, non asserve il gusto comune, non ha mai voluto conformarsi nelle facili etichette, forse questa la sua inquietudine che lo rende più vero del vero, essere diretti con la realtà, traducendola nel poggiare le cose per come si presentano, spietate e leggiadre, stesso peso e misura, ove ne coesistono gioia e morte. E qui, nelle quasi cronachistiche sue tematiche, fatte di asfalto e cemento, grigi e violacei sporcare il manto stradale, si intravedono inaspettatamente, cadaveri ricoperti di bianche lenzuola, come fantasmi che non cancellano dalla sua mente, quella del fanciullo, le fulgide impressioni da passante, quel ragazzino che, nella folla osservatrice, quelli dei voyant , che non si ferma al caso, ma ne vuole osservare consapevole, come ad un macabro spettacolo di curiosi, quasi compiaciuti dall’imprevisto, osservano dopo l’esecuzione dei killer, un corpo senza vita in una pozzanghera rossa. E per Giuffrida, si assimila un momento come l’eterna commozione, lo stordimento di una realtà al di sopra della nostra condizione, ci viene dettata atrocemente. Mi viene un parallelismo con Caravaggio, nelle sue mnemoniche giovinezze, delle esecuzioni capitali delle piazze di Roma nel ‘600, quanto al suo ripetersi del tema sulle decollazioni, alle decapitazioni, sembra, vi siano tutte le angosce vissute di precise osservazioni, qui il realismo che non si discosta dalla vita. E in quel di Gela che, tutti ne abbiamo assimilato nell’inconscio, come una ferita che, nei colti, arriva come poesia.
Ma si sa, nell’arte, la sensibilità degli artisti consta i tempi in cui hanno vissuto. Ma nel ciclo del Circo, dipinto di grande dimensione, quasi allegorico, come ne allegasse ai suoi temi, una felliniana visione notturna, contaminarsi di cinema, ma inscenare la vita, e nuovamente, ci mette dinnanzi ad un impenetrabile dilemma, quella inanimata e sospesa, forse rassegnata, come nella fotografia di Gregory Crewdson, ove il cupo silenzio della notte, ci pervade di indicibili sospensioni. Ma parlando di questo circo dipinto , vi sono pure uomini nudi e animali, del retro stalla, tra odor di fieno e grasso da camion, come carne volesse consumare fellatio, poste allo stesso modo, condurci agli interrogativi più complessi del livore umano. E in questa carnalità, che Emanuele Giuffrida, ci porta ad un nuovo tema, di altri odori e colori, quasi sensoriali. Patine di fotografie famigliari, sfaldarsi tra i rossastri del traslucido anni ‘70, quelle delle polaroid o foto del giorno dopo alle scampagnate. La sua pittura qui, diversamente da prima, cambia, muta, forse rigetta la pelle, ma non tralascia la memoria, e la stessa pittura diventa tempo che non prosciuga i ricordi, in un riprodurre forme e segno, non più come reale, ma nella realtà della pittura come micro chirurgia, analizzare e distruggere, per poi ricostruire un disegno e descrivere ciò che la tecnica non può, la riproduzione dell’anima, quella della giornata e dei ritratti fissati in un eterno click, tra luce abbacinante, attraversare lo sguardo dell’uomo per l’uomo .

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