Parvenu

Parvenu. Rossana Taormina, l’alchimia dei sensi.

 

 

Cosa può esserci di più complesso quanto semplice, rileggere un libro, e illuminarsi di significati, di visioni, di immaginifiche contrapposizioni della nostra vita rispetto alla trama di ciò che traduciamo di un ricordo, di uno scritto o di un oggetto e fissarli nel tempo in cui ne decidiamo la loro dimora. Rossana Taormina, consapevole e irrazionalmente, ci porta in un tempo che non esiste, perché tutto muta. Lo fa con poesia, come numerica della matematica, il ragionamento visivo, tal volta, ed emozionale, quella dell’oggetto, del loro possesso, del loro rivivere, con tensione costante, l’intervento creativo. In questa accezione, osservo spesso, le sue fotografie, quelle di un’artista, che conosco da poco, ma che sembra averla da sempre frequentata. E mi colpiscono le sue remote, forse ritrovate, “scatole dei ricordi”, quelle impolverate dal tempo, come pure le cartine geografiche, odoranti di chiuso, materie prime che carte, odori, prima che idee…e l’artista, si lascia trasportare da questa emozionalità, nel calcolo di una ricerca di concetto, ma di intuito sensoriale. Vedo ancora, materie colanti, e volutamente, relitti sospesi, come a porci, interrogativi senza un senso, la banalità che ci parla delle nostre movenze e storie più indicibili, intrise di mistero. Ella, ricerca la casualità, ma vuole dissacrare per certezza, ciò che vuole partecipe nell’armonia di comporre elementi, spesso tridimensionali. E ne setaccia, attraverso quei suppellettili, come in cerca di se stessa. Lo fa con il racconto visivo, come leggere un libro a pagine bianche, nell’immaginario di ciò che la porterà a scrivere(lo fa però per immagini), nel silente sconfinare del visibile, quel criptico e intimo che traduce l’invisibile. Una ricerca insomma, animica e arcaica al contempo, perché sapiente, come a quegli ingiallimenti della carta, incollarci i negativi di una pellicola come relitti del tempo, per arrivare a farci comporre a noi la poesia.
Osservando le sue carte dei ramoscelli, quei frammenti di foglie o di rami quasi appassiti, quasi senza vita, concettosi e senza stagione, come primordio di un segno murale, mi ricorda Pompei, nella traccia sapiente del passaggio dell’uomo colto, nella quotidianità di una parete, quelle delle stanze dipinte con fogliame quasi simboliche . Ma in Rossana, c’è pure il concetto del primigenio, quel segno dell’uomo nel suo mistero di vita in questa esistenza, narrarci delle ramificazioni che sembrano radici inanimate, forse quelle che in grembo chiamiamo embrioni. E qui sempre il costante riferimento alla vita e alle proprie radici, come se, nella melanconia dell’oggi, ogni cosa ci sembra sfuggirgli di mano. E qui l’artista, interviene con forza, forse per un’inquietudine, fissare l’interesse, da intellettualoide e con energia verso una superficie, sia essa fotografia o carta sporca in genere. Nei suoi disegni, la linea, tutta tonda e asciutta, forma lo schiudersi delle membra, nella naturale sostanza , di ciò che ne potrebbe trarre da un germoglio, linfa o nutrimento di materia. Insomma, alchimia di una arcaicità del segno, che la rende atavica, ma lo fa come farebbe il tempo, graffiando i giorni e le notti, screpolandosi e increspandosi nelle superfici cotonate delle carte, materie a lei affini, nelle sue cupe pigmentazioni, i suoi spaccati, lasciano un segno naturale, di rimandi alle memorie. Le fotografie bianconere, di chissà quali storie vissute, anonime, diventano trame ordite, riletture, attraversi fili tesi come ragnatele, spiegarci le ragioni che portano incrociare le storie personali. In queste narrazioni non narrazioni, luoghi non luoghi, si giocano difficili terreni dell’iconoclastia più impenetrabile ma originale, come ad una archeologia del presente. Questo anelare, su documenti, per lei e noi tutti, sono delle emozionalità , dell’imprevedibile manifestazione animica di ciò che vorremmo avere con noi, nella nostra intimità. Rossana oggi, ci pone interrogativi esistenziali, quelli che, conducono alla sensorialità degli oggetti tridimensionali, come se, per un fotografo dell’Ottocento, non bastava il fotogramma visibile, ma cercare alchimia, che poi, avrebbe portato al cinema. L’artista qui, vale come una filosofa, contenersi nella spiritualità, non religiosa, ma dove, noi tutti, ci dispendiamo in ogni cosa, e solo disperdendoci nelle cose, che raccogliamo noi stessi.

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