Cronaca

Il reddito di cittadinanza tra il crollo delle domande e i nuovi esclusi

La ragione principale potrebbero essere i maggiori controlli previsti dal governo Draghi con l’incrocio delle banche dati da effettuare prima dell’erogazione degli assegni. Ma probabilmente ha contato anche l’«effetto annuncio» sullo stop al sussidio da parte del governo Meloni. Sta di fatto che il combinato disposto ha prodotto un forte rallentamento delle domande per il reddito di cittadinanza, scese a 366mila nel primo quadrimestre di quest’anno rispetto alle 485mila dello stesso periodo del 2022, il 24,5 per cento in meno.

Il primo anno, nel 2019, hanno beneficiato del reddito 1,1 milioni di famiglie (aprile-dicembre 2019), salite pian piano fino al picco di 1,7 milioni nel 2021, anche per effetto della crisi economica innescata dal Covid, per poi scendere gradualmente fino a 956mila lo scorso aprile – racconta il Corriere.

All’inizio i controlli erano per lo più successivi alla concessione del sussidio e a campione. Solo quando sono state concluse le convenzioni per l’incrocio delle banche dati, i controlli sono stati fatti prima, secondo quanto disposto nella legge di bilancio 2022 del governo Draghi, e questo ha portato a un aumento delle domande respinte. C’è poi stata la legge di bilancio 2023, la prima del governo Meloni, che ha decretato la fine del reddito come lo conoscevamo, sostituito dal 2024 dai nuovi strumenti previsti dalla riforma.

Cosa succederà dal 2024? Dalla lettura della relazione tecnica, si ricava che 436mila famiglie, per un totale di 615mila persone, non saranno più coperte dal reddito di cittadinanza, ovvero circa una famiglia su tre e una persona su quattro. Il governo stima che però 322mila persone, in pratica un occupabile su due, riceveranno il Supporto per la formazione di 350 euro al mese, perché parteciperanno a un corso di formazione o iniziative simili. Previsioni che gli stessi tecnici che le hanno formulate, a microfoni spenti, giudicano molto ottimistiche.

In ogni caso, anche a non voler essere ottimisti, la platea degli occupabili si ridurrà di anno in anno, non essendo il Supporto una prestazione ripetibile. E dal 2027 in poi non supereranno i 133mila. Quindi la gran parte dei teoricamente occupabili dovrà arrangiarsi, magari lavorando in nero o rivolgendosi alle associazioni di volontariato.

Secondo gli avversari della riforma si tratta di una sostanziale rinuncia dello Stato a tutelare una parte dei poveri, puniti per il fatto di non lavorare anche se questo non dipende da loro, in contrasto con le più recenti raccomandazioni della Commissione Ue a tutti gli Stati membri di dotarsi di uno strumento universale di contrasto della povertà. I difensori della stretta, invece, anche se non lo dichiarano apertamente, pensano che questi poveri spesso già lavorino, ma in nero, e che finora abbiano cumulato queste entrate con il Reddito.

Quello che è stato criticato è il modo un po’ grossolano col quale vengono distinte le due platee di occupabili e non, sulla base dell’età, delle condizioni di salute e dei carichi familiari. Facciamo un esempio. Una famiglia povera composta da un 18enne e da un 61enne (figlio e genitore conviventi) rientra tra i nuclei non occupabili (per la presenza di un over 60) e quindi ha diritto all’Assegno di inclusione, sostanzialmente analogo al Reddito, mentre un’altra famiglia, ugualmente povera, ma composta da un 18enne e da un 59enne avrebbe accesso solo al Supporto per la formazione e il lavoro, cioè l’assegno di 350 euro e solo per la durata dell’eventuale corso di formazione o attività simili e comunque al massimo per 12 mesi. Oppure: un adulto single povero non può accedere all’assegno di inclusione perché rientrante teoricamente nella platea degli occupabili mentre lo stesso adulto potrebbe accedervi in presenza di un figlio.

Il tutto mentre c’è ancora il vuoto sulle politiche attive del lavoro che dovrebbero spingere verso l’inserimento lavorativo. (LINKIESTA)

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