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Sanremo 2020, il grido di Rula Jebreal: “Mai più donne vittime. Lasciateci essere quello che siamo”

 

Commovente e tosto il monologo della giornalistra sul palco dell’Ariston, femminicidio e violenza raccontati attraverso l’esperienza personale di sua madre: violentata e costretta al silenzio, si suicidò quando lei era bambina
“Lei aveva la biancheria intima quella sera? Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina? Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans? Se le donne non vogliono essere stuprate devono smetterla di vestirsi da poco di buono”. Inizia così, poco prima della mezzanotte, il monologo di Rula Jebreal sul palco dell’Ariston, serata numero uno del Festival di Sanremo. Aveva annunciato che avrebbe parlato di femminicidio e che avrebbe detto cose “che non ho mai avuto il coraggio di raccontare nemmeno a me stessa fino a quarant’anni”. Si capisce perché. per parlare di femminicidio, violenza ma anche rispetto, libertà, usa l’esperienza personale, tragica: il suicidio di sua madre, abusata per anni.

 

Quelle sulla biancheria, gli anticoncezionali, gli uomini che indossano i jeans “sono solo alcune delle dfomande rivolte, nei tribunali, alle vittime di violenza sessuale”, spiega jebreal, e sottolineano una verità amara, crudele: non siamo mai innocenti, perché abbiamo denunciato troppo tardi, o troppo presto. Perché siamo troppo belle o perfino troppo brutte. Perché eravamo troppo disinibite e ce lo siamo meritato”. Un lungo monologo che Jebreal interrompe citando i passaggi di alcuni brani, La cura di Battiato, Sally di Vasco Rossi, La donna cannone di Francesco De Gregori, C’è tempo di Ivano Fossati. Alla fine spiegherà perché.

 

La commozione di Rula Jebreal nel ricordo della madre

Racconta Jebreal, che a stento riesce a trattenere la commozione (ma non le lacrime: per tutto il tempo tirerà su con il naso), di essere cresciuta in un orfanotrofio insieme a centinaia di bambini e la sera “noi bambine una per volta ci raccontavamo una storia. Erano favole tristi, non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate. Ci raccontavamo delle nostre madri spesso stuprate, torturate e uccise”. Ogni sera, continua la giornalista, “celebravamo il dolore con quelle parole. Io amo le parole, nei luoghi di guerra ho imparato a credere alle parole, non ai fucili”. Tira fuori i numeri, “spietati”: negli ultimi tre anni 3 milioni 150 mila donne hanno subito violenza sul posto di lavoro, negli ultimi due anni in media 8 donne al giorno hanno subìto abusi sessuali e violenza, una ogni 15 minuti. “Nell’80 per cento dei casi il carnefice ha le chiavi di casa, ci sono le sue impronte sullo zerbino, il segno delle sue labbra sul bicchiere”.

 

Ed ecco il racconto più doloroso: “Mia madre, che tutti chiamavano Nadia, ha perso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata dandosi fuoco. Ma il dolore è una fiamma lenta che ha cominciato a salire quando ero adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato il luogo della sua tortura perché mia madre fu brutalizzata e stuprata due volte: a tredici anni da un uomo, poi da un sistema che l’ha costretta al silenzio, perché le ferite sanguinano di più quando non sei creduta. L’uomo che l’ha violentata per anni era con lei mentre le fiamme divoravano il suo corpo. Aveva le chiavi di casa”.

 

“Non si chieda mai più a una donna che è stata stuprata com’era vestita quella notte”

Jebreal cita Franca Rame e la violenza subìta nel 1973, “l’anno in cui sono nata”, ricorda che l’attrice “in quei momenti diceva a se stessa di stare calma, si attaccava ai rumori della città”. Per questo ha citate quelle canzoni, “perché sono scritte da uomini e dimostrano che è possibile trovare le parole giuste per trasmettere l’amore, il rispetto, la cura. Questo è il momento in cui le parole diventano realtà e dovremmo urlare da ogni palco, anche quando ci dicono che non è opportuno. Io – continua – sono diventata la donna che sono grazie a mia madre, a mia figlia Miral che è lì seduta tra voi. Lo devo a loro, lo devo a tutte noi e anche agli uomini perbene, all’idea stessa di civiltà, di eguaglianza, all’idea più grande di tutte: quella di libertà”. Infine, si rivolge agli uomini: “Lasciateci essere quello che siamo e vogliamo essere. Madri di dieci figli o di nessuno, casalinghe o in carriera. Siate nostri complici, compagni e indignatevi quando qualcuno ci chiede che cosa abbiamo fatto per meritare quello che ci è accaduto. Domani domandatevi com’erano vestite le conduttrici di Sanremo, ma non si chieda mai più a una donna che è stata stuprata com’era vestita quella notte. Mia madre ha avuto paura di quella domanda. Noi donne vogliamo essere libere nello spazio, nel tempo, vogliamo essere silenzio, rumore. Vogliamo essere proprio questo: musica”.

 

 

 

 

 

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