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L’allarme dei petrolieri: «Nelle raffinerie 20 mila posti a rischio»

Ventimila posti di lavoro a rischio nella raffinazione del petrolio, come spiega sul CORRIERE ECONOMIA, settore con 21 mila dipendenti diretti e 150 mila indiretti. Questo l’allarme lanciato da Claudio Spinaci, presidente Unem, Unione energie per la mobilità, ex Unione petrolifera italiana, 39 aziende associate più 40 soci aggregati e 100 miliardi di fatturato annuo. Il nuovo nome dimostra come il settore stia cambiando pelle. Con la decarbonizzazione di petrolio ne servirà sempre meno. D’altra parte se vogliamo fare qualcosa per l’ambiente non c’è altra strada…

«Siamo di fronte a una transizione che va governata. Ma non lo stiamo facendo».

Come avete chiuso il 2021?
«Il 2021 è stato un anno drammatico. La raffinazione oggi fornisce carburante per l’autotrasporto in generale. Complice la crisi Covid, il settore ha perso un miliardo di Ebitda. La domanda è diminuita ma per motivi tecnici una raffineria non si può fermare, può scendere al massimo al 70% della produzione. Siamo in ginocchio e in ginocchio dobbiamo affrontare la riconversione».

Una raffineria cosa potrebbe lavorare al posto del petrolio?
«Una raffineria può produrre biocarburanti da biomasse o carburanti sintetici da idrogeno e Co2 catturata e stoccata. Alcune lo stanno già facendo. Già oggi il 10% circa dei carburanti deriva da biomasse. I rifiuti diventeranno materie prime secondarie. Pensiamo alle biomasse derivate da oli usati alimentari. Certo, non tutti si riconvertiranno, siamo consapevoli che questa transizione porterà a chiusure. Sia chiaro, però: queste chiusure paradossalmente rischiano di creare un ulteriore danno ambientale».

Perché?
«Le raffinerie italiane lavorano rispettando norme ambientali rigorose. Il petrolio che non raffiniamo noi sarà raffinato in Paesi che non hanno questi vincoli. Quindi con maggiori emissioni di Co2 che danneggiano anche noi. Per l’Italia poi ci sarebbe un altro svantaggio. Il grezzo è disponibile ovunque, dall’America latina, alla Russia, al Medio Oriente. Nel nostro Paese lavoriamo 70 tipi di grezzi diversi. Comprare sul mercato prodotti già raffinati come benzina e gasolio è più difficile. Se non raffiniamo da soli ci esponiamo a crisi di rifornimento e saremo dipendenti dalle raffinerie di Asia e Medio Oriente».

Sulla praticabilità della cattura della Co2 ci sono dubbi.
«I carburanti sintetici che derivano dalla Co2 si possono già produrre solo che costerebbero 3-4 euro al litro. Vanno industrializzati per ridurre i costi ed è una cosa che richiede tempo, 10-15 anni. E poi i motori endotermici che resteranno, e saranno ancora molti, hanno bisogno di carburanti sintetici e biocarburanti. Che resti una quota di mobilità con il motore endotermico sarebbe utile anche alla filiera».

La via verso un carburante che permetta al motore endotermico di funzionare a emissioni zero non pare breve.
«Perché forse non ci sono ostacoli da risolvere sulla strada della mobilità elettrica? Eppure in quell’ambito si dà per scontato che tutto si possa risolvere. Resta il fatto che il nostro settore è a un bivio. Chi vuole restare in campo deve passare a impianti in grado di gestire materie prime diverse. E questo richiede miliardi di investimenti. Bisogna anche mettere in conto una fase lunga di perdite. Investimenti pubblici non ce ne sono. Con lo stop alle immatricolazioni di auto con motore endotermico a partire dal 2035 si sta favorendo l’elettrico. Ma non si sono fatti i conti con quello che succederà a breve».

Che cosa succederà?
«Il nostro settore ha cicli di investimento di 6-7 anni. Se le nostre imprese smettono di investire oggi, al 2035 i nostri impianti non ci arrivano. Chiudiamo prima. Con una doppia beffa: da una parte il Paese non avrà il petrolio da raffinare in prodotti di cui ha ancora bisogno, dall’altra tanti posti di lavoro persi».

La stima di 20 mila non sarà eccessiva?
«Temo di no. Il 60% dei posti sono al Sud. Tutti i siti produttivi nei prossimi 3-4-5 anni sono a rischio. Abbiamo chiesto un tavolo di confronto al governo dove venga tracciato un percorso condiviso. (Unem ha scritto al titolare del Mise, Giancarlo Giorgetti, e del Mite, Roberto Cingolani, ndr;). Nelle raffinerie che sopravviveranno tra 10-15 anni il petrolio sarà una materia prima residuale. Oggi una raffineria in media lavora per l’80% petrolio grezzo e per il 20% biocarburanti. Serve un piano per gestire questa transizione in modo sostenibile non solo sul piano ambientale ma anche sociale e industriale. Bisogna tenere conto anche che le raffinerie pagano fatture per 80 miliardi l’anno ai fornitori. Senza contare i 50 miliardi l’anno di accise versate allo Stato».

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