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Il ricordo di ‘Peppinoblanco’ del Prof, Rosario Portale ieri a Niscemi al Museo su invito dell’Inner Wheel

Niscemi – Ci sono sentimenti che non finiscono. Sfidano il tempo che passa e la morte e rinverdiscono ad ogni piè sospinto. E’ l’amicizia fra Saro Portale e Pinoblanco. Così si chiamavano due giovanotti che si sono incontrati negli anni ’60 alla facoltà di Lingue dell’Università di Catania. Poi le loro vite hanno preso strade diverse ma l’amicizia è rimasta ed è quella che ha mosso le parole che il Prof. Portale ha pronunciato ieri sera al Museo della civiltà contadina di Niscemi dove è stato invitato dal direttore Mongelli e dalla presidente dell’Inner Wheel per presentare il testo ‘Giuseppe Blanco – l’uomo, il giornalista, il lettarato’ scritto da Salvatore Buscemi, Nicolò D’Alessandro, Gaetano Vicari, Giuseppe Vaccaro, Liliana Blanco e Rosario Portale.

Ecco la relazione del docente di Lingue e Letteratura inglese Rosario Portale, pronunciata ieri sera:

“Sono ritornato a Niscemi dopo quasi sessant’anni e una vita trascorsa in buona parte
fuori dalla mia Sicilia. Ci sono ritornato con grande piacere, su invito della giornalista
Liliana Blanco, in occasione della pubblicazione del volume di Salvatore Buscemi e
Nicolò E. D’Alessandro, “Giuseppe Blanco – L’uomo , il giornalista , il letterato”,
stampato per i tipi di Edizioni Lussografica, e per rendere omaggio e ricordare un
vostro grande ma misconosciuto concittadino, il Prof. Giuseppe Blanco, che questa
città amò con amore di figlio devoto. Sono ritornato con grande piacere perché tanti
ricordi dei bei giorni passati qui in anni ormai lontani, sono incisi nella mia memoria
in modo indelebile e scompariranno solo quando anch’io lascerò questo mondo; ci sono
ritornato , però, anche con un velo di tristezza perché allora , in quei pochi, bellissimi
giorni, c’era il futuro Professor Giuseppe Blanco, allora come me studente
universitario, il quale riempì ogni minuto del mio soggiorno facendomi visitare ogni
angolo del vostro paese, mi raccontò con dovizia di particolari storia e tradizioni
religiose locali ( era un fervente cattolico), mi presentò a tantissimi suoi amici fra i
quali il poeta Mario Gori ( Blanco era conosciutissimo e ricordo che tantissime persone,
incontrandoci lo fermavano, lo salutavano con affetto, con deferenza o con una pacca
sulla spalla), mi portò in un circolo culturale di cui era socio ( non ne ricordo il nome
ma era ubicato in piazza Vittorio Emanuele, antistante la Cattedrale ), mi fece ammirare
il meraviglioso panorama che si gode dal terrazzo del Belvedere, mi coinvolse nei
festeggiamenti che in quei giorni si svolgevano per la festa in onore della vostra
patrona, SS. Madonna del Bosco, mi portò a vedere le corse dei cavalli, che avevano
luogo nelle vie cittadine e, da buon melomane qual era, ad ascoltare i concerti bandistici
nella piazza principale che, allora la televisione non c’era, allietavano la cittadinanza.
Dulcis in fundo, non saprei dire quante volte mi fece passeggiare, sottobraccio (allora
fra amici era uso comune) su e giù per una parte del corso principale affollato dallo
struscio serale. Il mio coinvolgimento in quelle passeggiate, aveva uno scopo ben
preciso che narro brevemente nel mio contributo al volume, intitolato Un amico
indimenticabile: Peppinoblanco.

Per come lo ricordo, era misurato nel parlare, affabile nella conversazione, gentile nel
tratto, pronto nella battuta, e sapeva suscitare in chi lo frequentava una spontanea,
irrefrenabile simpatia. Di statura media, aveva una corporatura massiccia, portava
spessi occhiali di tartaruga dietro i quali due occhi mobilissimi sembravano frugarti
nell’anima, aveva la fronte spaziosa, i capelli erano precocemente brizzolati e sempre
ben pettinati, la barba dura e fittissima, anche dopo una rasatura accurata ( a Niscemi
andava sempre dal barbiere) traluceva dalla pelle chiara e rosata, l’incedere lento e
misurato e l’eleganza sobria, gli davano un’aria contegnosa e quasi severa (credo lui lo
sapesse) e nell’insieme un aspetto di grande serietà. Ma era solo, diciamo così, “ la
facciata”, perché in realtà, con me e con i nostri compagni d’università, Peppino Blanco
era una persona estroversa, cordiale, affabile, un amabile compagnone, un giovane (
nonostante i suoi 32 anni) fra i giovani, uno che non si tirava indietro quando c’era da
far baldoria, giocare a carte, fare una bella mangiata o una lunga passeggiata a tarda
ora in Via Etnea discutendo di politica, di donne e di sport.
Questo vostro concittadino sarebbe poi diventato un docente bravo, serio e preparato,
uno scrittore versatile arguto e raffinato, un ricercatore eclettico, un intellettuale ante
litteram, un entusiasta cultore di storia patria, un appassionato animatore culturale e,
come lo definisce Giuseppe Vaccaro, anche un frenetico cronista sportivo.
Per voi che poco o nulla sapete di lui, seppur a grandi linee, voglio qui ripercorrerne la
vita e le molteplici attività letterarie e culturali.
Nasce a Catania il 3 settembre 1926. Il padre, Giuseppe, era un insegnante elementare
di Niscemi e la mamma, Caterina Frazzetto, anche lei di Niscemi, era una giovanissima
vedova di guerra. A 11 anni, da Niscemi si trasferisce a Gela dove frequenta prima il
Convitto Pignatelli e poi, come convittore, il prestigioso Liceo-Ginnasio Eschilo dove
nasce e matura la sua predilezione per le materie umanistiche E’ lì che incontra il futuro
poeta Mario Gori con il quale stringe un’amicizia che durerà più di quarant’anni.
Rimane orfano a soli 19 anni, e non è dato sapere perché decide di intraprendere gli
studi scientifici e di iscriversi all’università di Catania nella facoltà di chimica. Quel

che è certo, però, è che ben presto si rende conto di quanto quegli studi gli siano poco
congeniali e che i suoi interessi culturali invece sono per gli studi umanistici, per la
letteratura in particolare, studi di cui si è nutrito negli anni del ginnasio liceo e che
personalmente ha arricchito con numerose letture di autori e opere della grande
tradizione letteraria italiana ed europea. (Giuseppe Blanco, così come lo ricordo, era
un lettore onnivoro e attento). Lasciata l’Università, si dedica al giornalismo sportivo
(da allora seguì le vicissitudini del Niscemi, la squadra di calcio del suo paese) e ben
presto diventa collaboratore del “Giornale di Sicilia” di Palermo e de “La Sicilia “di
Catania. Per questi quotidiani non si occupa soltanto di calcio ma scrive anche
numerosi articoli per la pagina della cultura, quella che allora veniva chiamata Terza
Pagina. Successivamente, entra per un certo periodo nel mondo della scuola e fa una
breve esperienza di segretario presso la scuola di avviamento professionale dove svolge
mansioni prettamente amministrative e conosce, così scrive la figlia Liliana nel suo
intervento, “la bella professoressa di Gela, Ida Liparoti, figura ieratica ed energica che
contribuisce a dare alla sua vita una piega più lineare ed in sintonia con i suoi interessi
letterari “. Spinto e stimolato da Mario Gori, ma anche per amore e per necessità, nel
1958, a 32 anni decide di riprendere in mano i libri per conseguire un titolo accademico
e si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania scegliendo il
corso di Laurea a lui più congeniale, vale a dire Lingue e Letterature Straniere
Moderne. Fu lì che ho avuto il piacere di conoscerlo e di apprezzarlo come amico e
come uomo di solida cultura e grande umanità. Ci ha accomunato per circa 4 anni, la
frequenza alle lezioni, le tantissime ore di studio per la preparazione di molte materie,
lo scambio di idee, libri, appunti e dispense, ma anche la fraterna condivisione di
sigarette e cibo che le nostre famiglie ci facevano arrivare, grazie alle macchine di
servizio pubblico, da Niscemi e/o Adrano, la condivisione di segreti, ansie, paure e,
non ultima, la gioia incontenibile per aver entrambi superato un esame.
Il 1963 è un anno importante nella sua vita: consegue la laurea in Lingue e Letterature
Straniere Moderne, specializzazione in francese, e corona il suo sogno d’amore
sposando la bella Ida, che ha la cattedra di Lettere classiche a Gela. (Purtroppo non
potei partecipare al loro matrimonio perché ero a Roma a frequentare un corso di
specializzazione post lauream in Linguistica teorica e applicata, e perché in quegli anni
andare in treno in Sicilia o dalla Sicilia andare a Roma, Torino o Milano era una vera
e propria impresa che solo chi ha vissuto quegli anni può capire. Vi basti pensare che
fra noi emigrati sul continente si usava ripetere, un po’ per celia un po’ per non morire,
una battura usata dal Pitrè “Prima di pàrtiri facisti testamentu ? “).
Giuseppe, quindi, noblesse oblige, si trasferisce a Gela che da allora in poi diventa la
sua città d’adozione. Scrive Nicolò D’Alessandro:” Passare dalla sonnolenta Niscemi,
città la cui vita era, ed è, permeata da un deserto culturale, a Gela, città culturalmente
molto più vivace, gli dà la possibilità di realizzare il sogno da sempre vagheggiato:
potersi dedicare agli studi, alle ricerche”. Era importante, però, avendo messo su
famiglia, trovare una sistemazione stabile e sicura e garantirsi così anche una certa
sicurezza finanziaria, per cui decide di darsi anche lui all’insegnamento. Fa quindi un
concorso, che vince a primo colpo, e diventa titolare di cattedra di francese.
L’insegnamento, al quale si dedica con l’impegno e l’entusiasmo che mette in tutto
quello che ama, se da una parte rappresenta il giusto coronamento di tanti sacrifici e gli
dà da vivere, dall’altra non lo appaga appieno, ed è per questo che, sulla scia degli studi
di francesistica fatti all’università, inizia a condurre accurate ricerche sui suoi autori
prediletti e sul periodo storico che più ama, il Settecento. Frutto di queste ricerche,
siamo nel 1967, il volume “Voltaire – Rapporti letterari con Parini e Leopardi “e un
saggio “In margine al Voltaire ed al Settecento del Natali”. Ad essi fa seguire, due anni
dopo, un’altra pubblicazione, anch’essa sul suo autore preferito, dal titolo “La profezia
di Voltaire sulla Rivoluzione francese “
Nel volume su Voltaire, Parini e Leopardi, frutto di uno studio attento ed accurato delle
opere dei tre grandissimi autori, Blanco, ovviamente , si ferma alla trattazione
dell’essenziale sviluppando determinati argomenti e sfiorandone altri. Nella prima
parte scopre, cosa mai rilevata prima, stretti legami e numerosi punti in comune, tutti
scrupolosamente documentati, comparati filologicamente e vagliati criticamente, fra
l’ode di Giuseppe Parini, L’Innesto del vaiuolo, pubblicata nel 1765, e una delle

Lettres Philosophiques, precisamente la XIa, scritta da Voltaire più di trent’anni prima,
che tratta lo stesso argomento. Nella seconda parte, mette a confronto Voltaire e
Leopardi , uno filosofo l’altro poeta che parlano della natura dell’uomo, dei desideri
di quest’ultimo e delle sue necessità spirituali, e che hanno in comune nel loro pensiero
l’assoluto bisogno di liberare la specie umana dalle strette dell’infelicità.
Il 5 dicembre 1970, all’età di 44 anni muore il fraterno amico e mentore Mario Gori,
una perdita che lo segna nel profondo. Con lui scompare il compagno d’infanzia, di
scuola e di vita, l’uomo per il quale nutre ammirazione devota, il consigliere
disinteressato, l’amico vero e sincero con il quale per circa quarant’anni ha condiviso
gioie e dolori, segreti e confessioni, momenti felici e momenti di scoramento
esistenziale; “ Conoscevo, apprezzavo ed amavo Mario Gori…” cito dal suo epicedio
letto durante il funerale, “ con lui scompare un esempio di rettitudine, un uomo dalle
mille virtù che fu luce e splendore per noi in questo mondo tenebroso e dolente, un
uomo raro com’è difficile trovarne in questi tempi.” Per onorare l’amico
immaturamente scomparso, pubblica un anno dopo la morte, il pregevole volume
“Mario Gori e la sua musa”. “La parte introduttiva”, gli scrive in una lettera il critico
Franco Calì, “sofferta, umana, documentata, è un saggio prezioso, caldo,
impareggiabile da cui bisogna muovere per chi voglia studiare, nell’avvenire, l’opera
del Gori. Una tappa obbligata insomma”. A questa lunga parte introduttiva, in cui viene
fatta un’accurata analisi delle varie tappe della prodigiosa attività del poeta niscemese,
Blanco fa seguire un corposo ma agile florilegio delle più significative produzioni
poetiche in italiano e in dialetto siciliano di Gori, e una breve, accurata selezione dei
suoi scritti critici e scritti in prosa.
L’attività di ricerca, di scrittura e di critico di Blanco non conosce sosta. Fra il 1973 e
il 1974 vedono la luce i saggi” La lezione del Manzoni” e “Divagazioni sull’arte”, il
volumetto “Voltaire e Goldoni” e due lunghi articoli “L’anima del libro” e “Cronache
letterarie del Settecento”, pubblicati sulla Terza pagina di Ragusa Sera. Oltre alla
ricerca, alla scrittura e, naturalmente all’insegnamento di francese nella scuola, portato
avanti sempre con estrema serietà e rigore, è impegnato in una lunga e variegata serie

di conferenze, partecipazione a simposi letterari e manifestazioni pubbliche.
Nonostante questa non indifferente mole di impegni, trova il tempo di condurre
ricerche anche nel campo della musica di cui era un appassionato cultore. Da quel che
ricordo, era come me, un melomane appassionato di musica classica e in particolare di
opere liriche: quante volte, nei momenti di svago, in pensione o durante le nostre
lunghe passeggiate catanesi, facevamo a gara a chi sapeva cantare o fischiettare meglio
le arie delle opere più famose. Erano delle gare spassosissime in cui vinceva sempre
lui, non c’era verso di batterlo (aveva un orecchio straordinario e a fischiettare era
imbattibile) e io ogni volta, per celia e provocatoriamente, gli battevo le mani e ridendo
gli urlavo: “Braaavoooo, ma che braaaavoooo che sei. Bravo, bravo, bravo. Certo, vinci
sempre tu perché sei più grande di me e, ovviamente, ne sai più di me”. Concludevo la
mia tirata con il termine: “Vicchiazzu”. E lui ogni volta annuiva e rideva, rideva con
malcelata soddisfazione e poi mettendomi il braccio sulla spalla diceva: “Che ci vuoi
fare? Rassegnati “.
Fra gli autori che prediligeva, Rossini, Verdi, Donizetti, Mascagni, Bizet, Liszt e
Bellini. A quest’ultimo dedica l’agile e documentatissimo volumetto “Bellini a Parigi”,
e il saggio “Il cappello di Bellini”, usciti rispettivamente nel 1977 e nel 1979. Il primo
contiene, oltre a interessanti e sconosciuti episodi che arricchiscono l’aneddotica
belliniana, una scrupolosa, meticolosa ricostruzione degli ultimi due anni della vita del
grande compositore catanese passati prima a Londra e poi nella capitale francese dove
si circondò e fu circondato da grossi nomi della letteratura, dell’arte e della mondanità.
Nella narrazione vengono anche rievocati molti episodi della vita “italiana” di Bellini
che si intrecciano fittamente con informazioni e ampie testimonianze, anch’esse
pressochè sconosciute, di personaggi illustri (in particolare ricordo quelle di Rossini,
Chopin e Heine) e personaggi meno illustri che ebbero con lui rapporti amichevoli o di
lavoro, o che gli furono ostili.
Nel libro ci sono due cose molto interessanti che sottopongo alla vostra attenzione. La
prima è una lunga digressione autobiografica, un ricordo caro in cui Blanco confessa
che la sua natura incline alle bellezze dell’arte era stata rafforzata all’amore e al culto

per la musica operistica e particolarmente di Bellini dall’illustre maestro catanese
Gianni Bucceri. Sul maestro e sul loro lungo rapporto che fu di maestro – discepolo,
scrive: “La sua dedizione alla musica era totale, come totale era l’ammirazione che egli
provava per il suo grande concittadino del quale parlava, oltre che con competenza,
con affetto sincero. Sapeva tutto su Bellini e tutto a varie riprese mi raccontava con
mente lucidissima … Più tardi, e precisamente nella primavera del 1951 (Blanco allora
aveva 25 anni), i nostri rapporti si fecero più cordiali e l’argomento dei nostri
conversari era sempre uno: lui accanito parlatore e io instancabile ascoltatore.”
La seconda cosa interessante è che nel corso della sua scrupolosa trattazione su Bellini
a Parigi, fra i numerosi critici italiani e stranieri che cita o confuta, fa un lungo
riferimento ad un interessantissimo saggio sul Genio, e ne riporta ampie citazioni,
scritto da Vincenzo Crescimone, il grande letterato di Niscemi, che verso la fine
dell’Ottocento operò a Catania. Netto e persino commovente il giudizio di Blanco il
quale fa l’altro afferma: “Tutto lo scritto è affascinante e nuovo nel suo genere. Il
Crescimone è l’esempio tipico del grande siciliano dimenticato. Egli disse cose
pregevoli in letteratura e in filosofia, e la sua mente si aprì in maniera geniale nel campo
dell’attività speculativa e critica. Oggi, è quasi dimenticato e vive soltanto in me che
leggo le sue opere, i suoi preziosi, sapienti scritti, dai quali traggo sempre insegnamenti
di vita e di arte”.
Ritornando a Bellini a Parigi, sostiene e a ragione Gaetano Vicari: “In questo volume
Giuseppe Blanco ha sviscerato tutto: il carattere focoso, le gioie e le tristezze amorose,
le gioie e le delusioni professionali, le critiche e le polemiche inopportune, gli amici e
i nemici del musicista catanese, l’analisi e i giudizi delle opere.” Un volume prezioso,
piacevole, stimolante, attualissimo anche oggi, quindi, che a mio avviso varrebbe la
pena ristampare non solo per gli innumerevoli ammiratori di Bellini ma anche per il
più vasto pubblico di lettori.
Un saggio breve e molto divertente da leggere, è invece “Il Cappello di Bellini” nel
quale sono narrate in modo impareggiabile e con straordinaria acribia linguistica una

famosa, esilarante gaffe, -” infortunio linguistico” lo definisce Blanco – di Bellini a
Parigi, una fra le tante gaffe sulle quali lo stesso musicista ci rideva sopra
raccontandole agli amici, una gaffe dovuta alla sua cattiva conoscenza della lingua
francese, lingua che parlava male e verso la quale egli forse non si sentiva
tendenzialmente portato.
Non meno interessante è l’attività di operatore culturale del vostro concittadino. A lui
si deve la fondazione, a Gela, di una sezione dell’Archeoclub della quale viene eletto
presidente e per la quale tiene due memorabili conferenze, il cui testo è stato poi dato
alle stampe sul grande “Ettore Romagnoli e la civiltà ellenica” (!982) e “Euclide
cittadino gelese” (!985), conferenze il cui testo è stato in seguito dato alle stampe.
Fra il 1979 e il 1986, oltre a portare avanti la lunga e mai interrotta collaborazione con
il quotidiano La Sicilia, collabora, su loro richiesta, a due testate giornalistiche di
provincia, segnatamente Il Corriere di Gela e Ragusa Sera, e continua la collaborazione
alla rivista mensile francese “Culture francaise “, iniziata nel 1974 con il saggio
“Rossini francese”. Fra i più interessanti contributi alla terza pagina delle nuove testate,
voglio qui ricordare i suoi saggi su Cambronne, Carducci, Paganini, Crispi e Gladstone,
raccolti poi in un volumetto postumo con il titolo Riletture e dato alle stampe dalle
Edizioni del “Corriere di Gela”. Questi saggi, ma credo sarebbe meglio definirli
divertissements, nel senso più ampio del termine, rivelano la predilezione di Blanco
per l’aneddotica, il gusto per il dettaglio, la ricerca del particolare, dell’aspetto
sconosciuto di un autore o di un periodo storico. Da qui, tanto per darvi qualche
esempio, la accurata, divertentissima descrizione di un episodio di guerra legato al
generale napoleonico Pierre Cambronne, passato alla storia per aver pronunciato a
Waterloo, mentre era assediato dalle truppe inglesi, la parola Merde, parola allora
impronunciabile; o ancora, l’episodio, sconosciuto ai più, riguardo ad uno spiacevole
incidente capitato a Giosuè Carducci, quando aveva 18 anni. Si tratta di questo: mentre
sosteneva la prova scritta di italiano per essere ammesso alla Normale di Pisa, il futuro
Vate della poesia italiana fu sorpreso da un facente funzione bidello che faceva da
sorvegliante, mentre, con il libro aperto sopra le gambe, cercava di copiare da un

sommario dei temi di filosofia corredato da postille manoscritte, e pertanto costretto a
consegnarlo.
O ancora, la bella descrizione della vita, degli amori e della attività artistica del
musicista genovese Niccolò Paganini, grande violinista, definito “diabolico” per il suo
eccezionale virtuosismo, artista dalle incredibili risorse che durante le sue esibizioni in
pubblico non concedeva bis perché interpretava opere inventate lì per lì, malgrado
facesse finta di guardare il leggio. Chi non ha mai sentito dire Paganini non ripete?
Ma qui faccio torto a Giuseppe Blanco continuando a ridurre in pillole i suoi saggi
frutto delle sue belle, accurate e intriganti ricerche, saggi che vi invito ad andare a
leggere per apprezzarli e gustarli bene com’è giusto che sia.
Un altro aspetto, certamente sconosciuto alle nuove generazioni di niscemesi è quello
che riguarda la sua passione sportiva, una passione che oserei definire morbosa, per la
squadra della Virtus Niscemi, della quali nel lontano 1949 fu tra i fondatori, una
squadra con la quale, per tantissimi anni, condivide gioie e dolori, fortuna e sfortuna,
momenti esaltanti e momenti di profondo scoramento. Questo sviscerato amore, che
mantiene vivo sino alla fine dei suoi giorni, lo porta a scrivere “Piccola storia del
Niscemi – Memorie di uno sportivo 1938-1988”, una breve storia d’antan della sua
squadra del cuore, molto ben documentata, ricca di minuziosi particolari, di episodi di
vario genere, con i nomi e i cognomi dei calciatori, gli schemi di gioco, le gare di
campionato e le gare amichevoli, le formazioni, le classifiche, le presenze dei
giocatori, i gol , ritagli di giornale con il resoconto delle partite, e un ricco corredo di
foto, mute ma preziose testimoni di quei tempi ormai lontani .
Straordinario il quadro che di Blanco fa Giuseppe Vaccaro, un suo amico giornalista,
nel breve ma bellissimo intervento: Il frenetico cronista sportivo. Ascoltate questo
breve stralcio per capire meglio l’uomo e il tifoso:” Durante la gara, che seguiva dai
bordi del campo, era incontenibile, soffriva le pene dell’inferno, gridava, si muoveva,
il suo viso diventava rubicondo, richiamava spesso per nome il giocatore, perché aveva
sbagliato un passaggio o perché non aveva centrato lo specchio della porta, ma dalla
10
posizione da dove seguiva la gara non veniva sentito. Durante l’intervallo andava
dall’arbitro per perorare, ma invano, clemenza per qualche giocatore ammonito o in
procinto di esserlo…. Pino Blanco amò il calcio, in particolare quello locale, in modo
viscerale, lo poneva, mi diceva, dopo l’amore che aveva per la figlia Liliana e la moglie
che spesso gli “proibiva” di venire a Niscemi, la domenica, perché era pericoloso
viaggiare, “ma io ci vengo lo stesso, non posso stare lontano dal calcio.” Calcio che
amava tanto”, chiosa Vaccaro, “pur non avendo dato nella sua vita un calcio ad un
pallone”.
Per inciso, chi fosse curioso di vedere com’era il tifoso Giuseppe Blanco in quegli
anni, non deve far altro che andare a vedere le foto incluse nella Piccola storia del
Niscemi in cui lui appare alle pagine 17, 30,31,32,37 e 50 del volumetto, foto che
confermano ancora una volta la sua profonda devozione alla squadra di calcio della sua
città.
Per la sua feconda attività di saggista, critico e giornalista nel 1973 gli viene conferito
un Premio di Cultura dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1973, e nel 1991
il premio nazionale “Le Regioni “dal Comune di Pisa nel 1991.
Muore a Gela il 22 aprile 1991 dopo una malattia che lo consumò in pochi mesi.
E ora passiamo al libro di Salvatore Buscemi e Nicolò Francesco D’Alessandro
“Giuseppe Blanco – L’uomo, il giornalista, il letterato.”
E un volumetto di memorie, agile e piacevole a leggersi, al quale hanno contribuito
anche la figlia, Liliana, Giuseppe Vaccaro, Gaetano Vicari e il sottoscritto. Consta di
due parti complementari.
Nella prima, che contiene i contributi di Salvatore Buscemi, Liliana Blanco, Giuseppe
Vaccaro, Gaetano Vicari e del sottoscritto, vengono narrate e analizzate con
innumerevoli flashback e dovizia di particolari, molti dei quali inediti, la vocazione
letteraria del giovane Blanco, gli anni dell’Università, l’amicizia con Mario Gori, lo
studio su Voltaire, le divagazioni letterarie, le memorie paesane, il gusto per

l’aneddotica, per il particolare, per il dettaglio nella saggistica, l’amore per la musica,
l’operatore culturale e il cronista sportivo.
Nella seconda parte, Nicolò D’Alessandro presenta con rara acribia una corposa,
accurata e pregevole sinossi degli scritti di Blanco frutto di lunga, paziente, certosina
ricerca di tutti quegli scritti, inclusi alcuni reperiti in vecchie annate de La Sicilia, del
Giornale di Sicilia e della Rivista Storica Siciliana, che sono fortunatamente
sopravvissuti alla corrosione del tempo e che l’estensore, meritoriamente, è riuscito a
trovare.
Considerata l’oggettiva difficoltà di trovare la maggior parte degli scritti di Giuseppe
Blanco ( ma per chi volesse leggerle credo che le potrà reperire nelle biblioteche
comunali di Niscemi e di Gela, e forse anche alla Biblioteca Nazionale di Roma dove
gli editori, per legge, devono mandare tre copie per diritto di stampa), l’ampia sinossi
di D’Alessandro riveste, a mio avviso, una grandissima importanza in quanto ci
permette di seguire diacronicamente, passo dopo passo, scritto dopo scritto
l’evoluzione critica e letteraria di Blanco, di apprezzare la sua versatilità , di conoscere
inediti ricordi autobiografici, di gustare aneddoti, curiosità , episodi , vicissitudini ,
pregi e difetti di personaggi storici e di mostri sacri nel campo della letteratura, della
musica e dell’arte figurativa.
Da questa sinossi, pertanto , esce fuori una figura sfaccettata: c’è l’ infaticabile, sagace
ricercatore, lo studioso dalla mai doma curiosità intellettuale, il critico acuto e attento
che non risparmia giudizi affilati e taglienti e che rivendica sempre la propria
autonomia di giudizio, il saggista erudito i cui scritti (in particolare quelli su Voltaire,
Voltaire e Parini, Voltaire e Goldoni ,Voltaire e Leopardi, Le profezie di Voltaire sulla
Rivoluzione Francese), palesano a chiare lettere quanto profondo sia stato il suo amore
per la storia e la cultura francese, c’è il cultore della storiografia musicale che esce a
chiare lettere da Rossini francese e Bellini a Parigi, e lo studioso delle tradizioni
storiche del suo paese che riporta alla luce grandi ma ahimè dimenticate personalità

niscemesi come il pittore Francesco Indovina e il letterato, poeta e critico Vincenzo
Crescimone:.
Nell’interessante contributo di Gaetano Vicari, intitolato “Il saggista e l’operatore
culturale” ho trovato questa notizia interessante. Cito:” Blanco ebbe rapporti epistolari
con Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.” Se quanto afferma Vicari è vero, e non
ho motivo di ritenere che non lo sia, credo che sarebbe importantissimo cercare, e
trovare, quanto resta della corrispondenza epistolare intercorsa fra il niscemese e i due
mostri sacri della letteratura italiana e siciliana del Novecento. Quelle lettere,
aggiungerebbero un altro importante quanto inedito tassello alla conoscenza di una
personalità così composita qual è stata quella di Giuseppe Blanco. Invito, quindi,
Liliana, gelosa custode delle memorie paterne, a voler cercare quelle lettere.
Last but not least, voglio qui ricordare che il vostro concittadino impiegò parte del suo
tempo di studioso scrupoloso e sognatore, a ricercare, recuperare, ricostruire e
preservare sulla pagina memorie del passato, costumi e curiosità locali, momenti e
aspetti significativi della tradizione storica e culturale della sua amata Niscemi e di
alcuni grandi niscemesi che durante la loro vita si erano fatti onore nei diversi campi
del sapere, della ricerca scientifica, dell’arte. Attesta e conferma questa mia
affermazione il suo scritto dal titolo Aere Perennis, una pregevole, anche se sintetica,
panoramica sulla fondazione del Comune di Niscemi e su 18 illustri niscemesi del
passato. Per una trattazione più completa di questo aspetto della sua personalità,
rimando all’accurato contributo di Salvatore Buscemi, che apre il volume e che porta
il titolo “Identità e vocazione letteraria di Giuseppe Blanco “.
Mi piace concludere questo mio contributo in onore del vostro misconosciuto
concittadino ricordando le cose che di lui mi sono rimaste impresse in modo indelebile
nella memoria. Prime fra tutti, la generosità e la grande carica umana che sprigionava
dalla sua figura, e poi l’incontenibile, contagiosa passione per la cultura; la rara
capacità di analizzare e giudicare in modo sereno e imparziale eventi, persone e cose;
l’innato senso dell’onore; il rispetto della parola data e il rispetto delle idee (anche

politiche) diverse dalle sue; l’innato, sottile senso dell’umorismo che gli faceva
cogliere il lato comico delle cose; l’ invidiabile padronanza delle lingue italiana e
francese e il saper scrivere su qualunque argomento senza fumisterie, in modo chiaro,
sobrio e lineare, in punta di penna. Quello che più di tutto conservo di lui è quella che
chiamava Joie de vivre, quella gioia di vivere irrefrenabile e coinvolgente che
trasmetteva a chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo. Io sono stato uno
di quelli”.

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