CronacaRagusa

Sul Ragusano le mani di mafia catanese e stidda gelese (e Messina Denaro)

“Nonostante la latitanza, Matteo Messina Denaro resterebbe la figura di riferimento per tutte le questioni di maggiore interesse, per la risoluzione di eventuali controversie e per la nomina dei vertici delle articolazioni mafiose anche non trapanesi”. Lo si legge nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia al Parlamento relativa al secondo semestre 2021. “Cosa nostra si conferma organizzazione tendenzialmente unitaria sempre più tesa alla ricerca di una maggiore interazione tra le varie articolazioni mandamentali in mancanza di una struttura di raccordo di comando al vertice”. Nell’assenza fisica del “capo” sul territorio, storiche famiglie si affiancano altri sodalizi in un amalgama che sconfina tra distretti, fondendosi a livello regionale. “Nelle province di Siracusa e Ragusa – c’è scritto in particolare nel report della Dia – sono tangibili le influenze di cosa nostra catanese e in misura minore della stidda gelese nel solo territorio ibleo”.

Clan diversi, che “evidenziano maggiore fluidità non configurandosi organicamente in cosa nostra”. E sempre più in giacca e cravatta, che vuole allontanare da sé reati di sangue plateali per intrallazzare meglio nei traffici economico finanziari – appalti, fondi, investimenti – che da tempo rappresentano il business più importante, accanto alla droga: il settore imprenditoriale e della gestione locale della cosa pubblica. “Minimale – prosegue infatti la relazione – continua ad essere il ricorso alla violenza da parte di tutte le organizzazioni mafiose. Le stesse confermano la centralità del business che le vedrebbe, a volte contrapposte, convivere sullo stesso territorio per la spartizione degli ‘affari’. Questa mafia sempre più silente e mercantilistica privilegerebbe, pertanto, un modus operandi collusivo-corruttivo nel quale gli accordi non sono stipulati per effetto di minacce o intimidazioni ma con patti basati sulla reciproca convenienza”.

Dunque un’associazione che si diluisce penetrando le differenti fazioni, diffondendosi di comune in comune, di capoluogo in capoluogo, nel bene di tutte le sue tentacolari ramificazioni. Così “nel tempo anche le altre organizzazioni mafiose hanno perseguito la medesima strategia”: una criminalità organizzata in colletto bianco, a cui non conviene “affermarsi sul territorio mediante azioni eclatanti e destabilizzanti per la sicurezza pubblica”, attirando i lampeggianti delle forze dell’ordine. Le cosche – catanese, trapanese, nissena, siracusana, ragusana – sono tutte “all’interno delle amministrazioni” di enti statali e grandi aziende private capaci di “rafforzare l’interlocuzione con professionisti e ambienti istituzionali che, abbandonando il tradizionale ricorso a metodi cruenti per il controllo del territorio, privilegiano l’approccio corruttivo: l’azione spregiudicata e violenta del passato ha ceduto il passo alla necessità di adottare strategie silenti di contaminazione e di corruzione”.

Quale migliore occasione allora della crisi in corso, per allungare le mani su finanziamenti e stanziamenti: “In questo scenario di stagnazione economico-produttiva, che risente ancora della crisi pandemica e aggrava le aspettative soprattutto della popolazione giovanile, trovano terreno fertile le consorterie che potrebbero infiltrare le risorse della Regione, anche in considerazione dei fondi del Pnrr destinati all’Isola”. Si parla “dell’indebita percezione dei contributi comunitari per il sostegno allo sviluppo rurale”. È esattamente in questo ambito che scatta l’interesse dei gruppi criminali verso la provincia iblea, “nell’attività riconducibile alla mafia agricola, volta all’acquisizione di contributi pubblici per l’agricoltura a seguito di false dichiarazioni e frodi in danno dell’Ue. Nell’entroterra siciliano – conclude il rapporto – il comparto agro pastorale rappresenta il settore di traino per l’economia, che di conseguenza attira l’interesse delle consorterie che si avvarrebbero di prestanome e professionisti compiacenti”.

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