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Ma amici mai. La resurrezione dei grillini sulle ceneri del rapporto col Pd ci dice qualcosa di quell’alleanza (e anche del M5s)

La capogruppo al Senato di Liberi e Uguali, Loredana De Petris, ha annunciato che voterà per il Movimento 5 stelle. L’asse tra Massimo D’Alema e Giuseppe Conte, anche in questa campagna elettorale, è noto da tempo e già oggetto di mille retroscena. Quanto a Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, la loro intesa con l’Avvocato del popolo – nel senso di consonanza, comunione d’intenti, corrispondenza di sentimenti, si capisce – non ha nemmeno bisogno di retroscena, perché nessuno fa nulla per nasconderla, nemmeno davanti alle telecamere, nemmeno in campagna elettorale.

In altre parole, Enrico Letta ha regalato ad Articolo Uno diversi seggi sicuri – nella misura in cui possono essere sicuri i seggi del Pd in queste elezioni – e quelli a malapena lo votano, quando lo votano e non fanno direttamente campagna per la concorrenza. Convinti come sono, forse non del tutto a torto, che il proprio futuro politico sia assai meglio garantito da un successo di Conte che da un successo del Pd (comunque, va detto, non molto probabile).

Nel caso di Conte si tratterebbe in verità di un successo relativo, quale verrebbe considerato il prendere anche solo poco meno della metà dei voti raccolti alle scorse politiche, anziché un quarto o un quinto, come fino a pochi mesi fa in molti avrebbero scommesso, a cominciare dal sottoscritto.

Non si può negare però che la scelta di rompere con il Pd, con la maggioranza di unità nazionale e con il governo di Mario Draghi abbia funzionato alla grande, nonostante il primo obiettivo di Conte fosse leggermente diverso, e cioè che l’esecutivo andasse avanti senza di lui, regalandogli una campagna elettorale da principale oppositore del sistema lunga nove mesi. Gli avversari non sono stati così generosi, ma Conte ha impiegato proficuamente il poco tempo a disposizione, arrestando un declino del Movimento 5 stelle che sembrava ormai inesorabile.

La domanda giusta non è dunque cosa sarebbe accaduto se Pd e Cinquestelle fossero rimasti alleati (non sarebbe accaduto nulla di tutto questo, anche perché dal punto di vista di Conte non avrebbe avuto alcun senso mettere in crisi il governo, in tal caso).

La domanda giusta è come mai l’unico modo di arrestare l’inesorabile declino dei Cinquestelle sia stato proprio rompere con il Pd e con il governo Draghi, rimangiandosi un po’ alla volta tutte le parole d’ordine della fantomatica evoluzione liberaldemocratica dei grillini, dai rapporti con Putin, su cui Conte si è prodotto in giravolte politiche e lessicali paragonabili solo a quelle di Matteo Salvini, fino ai vaccini, su cui ha rivelato in questi giorni una ferma contrarietà alla scelta dell’obbligo per gli ultra-cinquantenni.

Se la politica avesse ancora un senso, e nel Pd fosse ancora possibile discuterne seriamente, anche a porte chiuse, questo sarebbe l’interrogativo al centro di ogni riflessione. Se l’unico modo di rianimare un partito moribondo è rompere l’alleanza con il Pd e rimangiarsi tutti i passi compiuti in quella direzione, questo dice evidentemente qualcosa di quell’alleanza, di quanto fosse realistica e affidabile come prospettiva, ma dice anche molto della natura del partito in questione. Per una simile riflessione, tuttavia, bisognerà aspettare il 26 settembre.

In compenso, in una surreale intervista a Repubblica, Letta ieri ha continuato ad accreditare la teoria suicida secondo cui un voto a favore del Movimento 5 stelle al sud favorirebbe il Pd (nota per i lettori distratti: il Movimento 5 stelle non è alleato in nessun modo con il Pd). Dopodiché ha spiegato che il Sud «non si salva con un derby tra Lega nord e il M5s nelle vesti di Lega sud».

Ricapitolando, il Pd ha fatto bene a rompere con i Cinquestelle, che sono una specie di Lega sud, ma ha fatto anche bene ad allearcisi prima, perché erano un punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti (anche se adesso, ovviamente, non lo sono più, almeno fino al giorno del voto). Si può però scommettere sin d’ora che, nella remota ipotesi in cui l’attuale gruppo dirigente del Pd rimanesse al comando un secondo oltre la proclamazione dei risultati, tornerebbe ad allearcisi pure dopo. Perché la vera tragedia di tanti politici di oggi non è semplicemente che non credono a quello che dicono, è che neppure si ascoltano. (Linkiesta)

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