Politica

È finito un film. Il governo dell’immobilismo svanisce. Non si dia per scontato il Conte ter

Perché in fondo la politica ha una logica e la data del 27 gennaio, giorno della relazione in Aula sulla giustizia non è Cigno nero, ma un appuntamento già noto la settimana scorsa, quando il governo ha incassato una fiducia piccola. E, nell’euforia collettiva ha affogato l’elementare previsione che i numeri non sarebbero stati sufficienti a superare il primo scoglio su Bonafede. Dunque Conte si dimette, anzi è costretto a dimettersi, cedendo al pressing di quanti, tra Pd e Cinque stelle, suggeriscono di “non cadere in Aula” perché logica vuole che se uno cade in Aula, poi difficilmente può giocarsi il “reincarico” per la formazione di un nuovo governo. E già questo archivia tutte le chiacchiere sul voto, disvelando la strumentalità con cui veniva evocato con l’intento di spaventare i parlamentari inducendoli a sostenere il governo in nome della tutela delle poltrone.

Finisce un film: l’ossessiva, testarda, eterna ricerca di blindare l’assetto esistente protrattosi, con un governo immobile, fino a quota 86mila morti. E da domani inizia un altro film: dimissioni, consultazioni, percorso che porterà alla formazione di un altro governo. È, oggettivamente, una vittoria tattica di Renzi, di cui è stata celebrata una frettolosa uscita di scena, che – giusto o sbagliato che sia, ognuno ha il suo giudizio – ha portato tutti sul terreno da lui voluto di una crisi formale, per discutere di nuovi assetti. E qui c’è un dato politico per nulla irrilevante. Perché quella che si apre con le dimissioni di Conte non è una “crisi pilotata”, di una maggioranza che è tale, dove una forza politica chiede una “svolta”, un “cambio di passo”, un “nuovo programma” (chiamatelo come volete”) e un nuovo assetto. E lì arriva. È una crisi in cui i “piloti” hanno già deragliato, e una maggioranza che tale non è cerca di consolidarsi proprio nella crisi. L’idea con cui si entra alle consultazioni è quella di arrivare a un “Conte ter”: Conte si dimette, Pd, Cinque Stelle, Leu indicano il suo nome per un nuovo governo, il premier uscente ottiene un reincarico e nel frattempo si appalesa un gruppo di responsabili disponibile a sostenerlo, il che dovrebbe portare alla nascita di un nuovo governo, magari anche con Renzi, ma non più in una posizione determinate.

Queste le intenzioni. Il problema però è che tra le dimissioni e l’eventuale reincarico ci sono di mezzo le consultazioni e cioè un quadro nuovo in cui in cui agiscono più attori. Il primo attore è proprio il gruppo che dovrebbe nascere, di cui va innanzitutto verificata la consistenza numerica e la compatibilità politica con l’appello alla nazione che Conte farà nel tentativo di allargare il suo sostegno parlamentare. La formula che userà è “governo di salvezza nazionale”, per favorire l’avvicinamento di quei pezzi di centrodestra, dall’Udc al gruppo Cambiamo di Giovanni Toti, il che non è un dettaglio in termini politici, perché ha come conseguenza una revisione di politiche e di assetti. Ad esempio, in un governo del genere, può rimanere al suo posto il ministro Bonafede? Purtroppo la relazione sulla giustizia non è come Autostrade o gli altri dossier di cui si è celebrata l’arte del rinvio. Prima o poi dovrà andare in Aula. E dunque la crisi si gioca anche su un terreno delicato e dirompente come la prescrizione, proprio quello su cui era iniziata un anno fa prima dell’emergenza, quando il governo era sul punto di cadere.

Il secondo attore è Renzi, che un Conte ter lo aveva proposto subito dopo le elezioni americane, come percorso condiviso, ma che evidentemente adesso giocherà a formare un altro governo senza Conte, consapevole che, nel nuovo quadro, saltato il tappo anche nei partiti nei prossimi giorni si svilupperanno dinamiche nuove perché nei Cinque stelle non tutti sono disposti ad appiccarsi a Conte e nemmeno nel Pd. L’apertura formale della crisi sposta cioè la discussione da “Conte o morte” a “Conte ter o nuovo governo”.

Il terzo attore è Berlusconi, la cui dichiarazione odierna sull’“unità nazionale” come alternativa alle urne manifesta una novità politica e una differenziazione all’interno del centrodestra sovranista col suo “al voto, al voto”. Non è questione di poco conto perché proprio il vecchio Silvio, fautore di un approccio non convenzionale ai limiti dell’antipolitica è colui che dà una risposta più di sistema, senza farsi risucchiare né nel gorgo governista (la famosa maggioranza Ursula con Conte) né nel gorgo populista, neanche dopo le lusinghe di una sua candidatura al Quirinale da parte di Salvini, in cambio del sostegno al voto.

Il quarto attore sono i Cinque stelle, che al primo giro certamente chiederanno il reincarico a Conte, ma già hanno fatto capire che il sostegno dura fin quando l’alternativa non è con la propria sopravvivenza che le urne metterebbero a rischio. I sospetti all’interno del Pd attorno a un accordo tra Renzi e Di Maio per un governo guidato da quest’ultimo sono indicativi proprio delle preoccupazioni sulla loro tenuta, qualora dovesse franare il tentativo di una maggioranza chiara attorno a un Conte ter.

Tutto questo pone un problema più di fondo, destinato a manifestarsi alle consultazioni. Se cioè siamo di fronte a una crisi politica di una legislatura difficile o se si manifesteranno tutti i segni di una più complicata crisi di sistema, dalla quale si esce solo con una risposta di sistema. Risposte che, una volta, arrivavano da sinistra, quando non c’era l’abitudine di far coincidere l’interesse nazionale con un governo e un premier, in un’affannosa rincorsa degli eventi senza mai determinarli.(Huffingtonpost)

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