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Siamo tutti intolleranti

rubrica a cura del Dott. Paolo Scicolone – consulente alimentare

 

Da qualche decennio ormai la parola intolleranza associata agli alimenti fa parte di quei concetti acquisiti da tutti o quasi.

Un corpo non tollera un determinato alimento o una sostanza.

Nulla di strano, succede a tutti. L’esperienza comune ci fa dire che non si digerisce il peperone, l’anguria, i fagioli, le ostriche, il pomodoro, etc.

Strana è la diffusione di questo fenomeno, diffuso in qualunque fascia di età e il fatto che sia rivolta anche, se non soprattutto, ad alimenti normalmente ritenuti “salutari”. Sento poca gente che viene a raccontarmi di essere intollerante alla nutella, alla coca cola, alle patatine confezionate. E il consiglio di eliminarli o ridurli spesso è legato solo ai fini di dimagrimento.

Così come le intolleranze stesse, in una distorta visione diffusa fra i non addetti ai lavori, sono associati solo a qualche cm in più di girovita o qualche chilo di troppo. Purtroppo non sarà solo quello l’inconveniente.

A parte casi particolari la natura non prevede, per via di lunghi ed elaborati ma efficaci sistemi evolutivi, che un organismo arrivi al punto di non riconoscere più una sostanza naturale fino al punto di non tollerarla e riconoscerla come tossica. Quindi qualcosa che va storto va sicuramente cercato non tanto nell’alimento (considerandolo integro e salutare, cosa non sempre facile) ma in un guasto del nostro software. Dovuto a cosa? Lo stile di vita moderno fornisce numerosi input tossici al corpo, di diversa natura. Si è interrotta quella armonia con la natura che per milioni di anni ha permesso un’evoluzione armonica e coerente fra l’uomo e l’ambiente, alimenti compresi. Oggi si vive sotto stress, in ambienti sempre più chiusi e condizionati, con alimenti che di naturale non hanno nemmeno la foto sulla confezione. Il corpo prova ad adattarsi. Smette di usare, fino a privarsene, meccanismi di digestione di alimenti complessi perché, per esempio, riceve prevalentemente alimenti iper raffinati, depurati di quelle sostanze grezze che stimolavano il corpo alla produzione di sistemi digestivi verso alimenti più complessi. Enzimi, per esempio. Molte intolleranze sono dovute a carenze enzimatiche. Oppure, talmente alto è il carico di sostanze chimiche usate come additivi e conservanti (una maledizione per la salute di tanti), o presenti come residui di lavorazioni agricole ed industriali, che vanno ad interferire, fino a modificarli, i sistemi di riconoscimento, assorbimento e digestione dei cibi. Oppure ancora, l’abuso di certe sostanze, spacciate come alimenti ma utili soltanto come mezzi di appagamento di voglie indotte artificialmente, che modificano clima ed ambiente all’interno del nostro canale digerente (qui si che i cambiamenti climatici ed ambientali sono evidenti e senza dubbio attribuibili all’azione dell’uomo).

Se non si parte da questo punto e non si prova a ripristinare l’ambiente interno le reazioni di intolleranza saranno sempre più numerose. E se i produttori ed i trasformatori, recitando un caloroso mea culpa, dovrebbero passarsi la mano sulla coscienza e lavorare con criteri più compatibili con la salute, ogni soggetto deve prendere coscienza del proprio ruolo e cambiare rotta, stimolando il corpo a produrre, attraverso stimoli diversi, l’ambiente interno più sano ed efficace possibile ed educare gli organi a rafforzarsi e difendersi meglio. Attorno a questo concetto si stanno sviluppando numerose nuove scienze, Epigenetica, Nutraceutica, ed altre che non fanno altro che lavorare su cose riscoperte e ripescate da un patrimonio di conoscenze antiche (come sempre) indagandole alla luce di conoscenze e mezzi moderni. L’essere umano intollerante, in tutti sensi, perché credo che un nesso fra intolleranza fisica e psichica vada di pari passo, magari qualche psicologo potrà confortarmi in questa mia posizione, avrà miglior vita (senza dover passare all’altro modo) se tornerà a dialogare con la natura in modo più sano. Partire quindi dalla gestione del caso specifico di ognuno e portare, con l’uso di alimenti e di altri interventi mirati a migliorare lo stile di vita, dare stimoli diversi al corpo per portarlo a recuperare delle funzioni che sono certamente presenti nel nostro DNA ma non sono messe in condizioni di esprimersi. L’alimentazione è sempre la prima cura. Anzi, la seconda: la prima è la propria presa di coscienza.

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