Parvenu

Parvenu – “Leggerezza e ponderosità dell’essere” nella materia di Michele Ciacciofera.

Michele Ciacciofera, l’ho conosciuto nel 2005, viaggiando, quando vicendevolmente incuriositi dagli echi professionali, ci incontrammo dinnanzi una galleria d’arte, e come solito fare alle inaugurazioni, con un collettivo di amici artisti. Quell’estate Michele, indossava una camicia di lino bianca, e bruciato dal sole, rossastro per natura, la sua capigliatura, mi riportava a Mick Hucknall, un cantante pop degli anni ‘80 che seguivo da ragazzo. Palermitano di origine, ma con equilibrata dizione, si mostrava già da allora, polemico e simpatico artista, che, oltre ad essere persona generosa e amico poi, ne diveniva, uno straordinario interlocutore di vita, oltre che dell’arte. Con lui, si chiacchiera ci si confronta sempre, e a lungo, Michele è persona disinteressata con il calore del buon signore siciliano, figura che, non pretende nulla, ma sempre disponibile, pure sulle idee del presente, che accorano la nostra quotidianità. Ricordo pure, egli, viveva a Siracusa, e precursore più di me, del suo occuparsi di altri artisti, scriveva recensendo coloro che lo appassionavano. Ma è tutta natura di un artista intellettualmente onesto, che, a mio parere, non riguarda solo il far della pittura, sarebbe “parrocchia del mestiere”. So che, da qualche anno, si è trasferito a Parigi. Ma ricordo pure, una mia visita, da più giovane, nel suo studio di Siracusa. Ricordi , frammentati, perché frammentati i nostri anni, da isolàni e facili viaggiatori per approdi più ambiziosi, si sa, nell’arte poi, premia il coraggio, e Michele, sapeva da sempre, che nel viaggio, vi esisteva sempre la scoperta. Egli, è un pittore, non per vocazione ma per decontestualizzazione, rispetto, alle nostalgiche visioni delle rappresentazioni, non è uno di quelli che insegue il passato. Io l’ho conosciuto dal suo stadio evolutivo, quello di pittore figurativo. Già sapiente. Mi ha sempre colpito del suo lavoro, il colorismo e la gestuale movenza di sintesi, quelle pennellate fluttuare nei fondi più ostici, e dilaniare corpi come macellaio che apre la carne, un periodo il suo, forse esistenziale ma con l’esotismo di una materia nuova e fluida; sentii rasentare qualche artista moderno ma non ne trovai riferimenti; un probabile espressionismo, o molto più semplicemente realismo, qualora, elementi rappresentati, esterni psicologici di colature munchiane, assalivano, con forza , la mia curiosità, quella dinanzi al fatto, del sistema chiuso e interconnesso con noi tutti: la vulnerabilità del quotidiano, strade, quartieri con automobili, e successivamente, campagne aperte con squarciati di cieli mielosi, come carne, ma tramonti quasi nostalgici . Un artista che, evita, da subito, l’equivoco del facile figurativo, per mettersi sempre in discussione nella ricercata iconoclastia (che vedremo più avanti), pittura per lui, che si faceva sempre più materia del dopo, quasi un normale lievitare delle cose, il mondo del passato, una archeologia della vita che lo avrebbe assalito nel futuro. In questa tensione, vi è la consapevolezza, che restituisce una pittura come la vita, sincera e travagliata. Michele lo sa bene. Sta per nascere una metamorfosi, come ha sempre ricercato. Oggi, ne vedo i risultati. La metabolizzazione di ciò, è materia del rinnovarsi, esigenza, di modularla, foggiarla, fino a restituirci splendide e misteriose ceramiche, patine vitree a volte, sculture ben più razionali altre volte. Tra astrazione e forma. Materie che, si fanno di se uno scultore, ma io ci vedo sempre pittura, quella stessa che vidi tra le mura del suo vecchio studio di Siracusa. Seppur Michele, non si rilega mai alla propria figuralità, ma evolve di continuo, come i suoi disegni acquarellati, prima di ogni manipolazione della creta. Scrive immaginando, immagina scrivendo, e lo fa da disegnatore qual è, la sua linea, diventa prosastica, come intuire una scena di teatro, dopo aver letto drammaturgia, in Pasolini erano “le ceneri di Gramsci”.
Diversi anni fa, dicevo, quando era ancora in Sicilia, lo andai a trovare nel suo studio a Siracusa. Entrando, mi sentii come a casa mia, non per il solito disordine degli artisti, ma per una serie di dettagli che mi colpirono, che mi portarono altrove. Il mio sguardo, era rivolto verso una sua tela di lino, malconcia, ma affascinante perché tessuto povero, vero lino grezzo che egli preparava a gesso. Sopra, un dipinto abbozzato. Già meraviglioso per come lo vidi, intinto e intriso non solo di quel gesso, ma di velature colanti, colori diretti dai tubi spremuti come carcasse giacere sui tavoli polverosi, disegnare col pennello, un volto mortifero e acido, un ritratto di donna danzante, forse un trionfo della morte, una spazientita lezione baconiana? No, Michele vede oltre. Ma quell’abitazione, era di più, una penombra abitata, vissuta, che nascondeva un mondo, passioni e sofferenze. E le sue, sono tensioni, come i suoi sogni, che portano sempre gli artisti al commozione, in un suo regalo per me perché ospite sacro. Era una carta dipinta, grande, una figura reggersi in piedi, un uomo nudo in controluce, un’esistenza che non reggeva quasi, dalla fatica della vita.
Quello spazio così angusto tanto sacro, che da lì a breve raggio di una passeggiata, si sarebbe incontrato l’Ortigia aretusea, quella nascosta alle spalle del suo edificio, nascosta perché l’arte di Michele ne era il centro di uno scambio . Ma Michele, diversamente da molti, caldeggiava un desiderio, “sopravvivere”, la Sicilia e l’Italia, gli stavano stretti. Vive a Parigi da qualche anno, in quella terra della Mitteleuropa, quella che conosciamo per la tradizionale avanguardismo. Oggi, lo rivedo Michele, sempre, con lo stupore di un artista, certo concettuale, ma, al limite della stessa sua metamorfosi , che, insegue ricerche, e non confonde nulla, neanche quel suo passato che conosco da figurativo perché lui è un artista figurativo ma rilutta sempre più il convenzionale. Lo fa, attraverso il plasmare della materia, derivante dai suoi disegni, che poi, sono viaggi e riflessioni, da quella archeologia interiore, per poi, arrivare alla ceramica, raffigurarci presenze, oggetti come se sbucati dal passato, forse figure sfigurate, membra o antropomorfi senza nessuna identità. La sua è plenitudine della compiutezza. E, come valso per Lucio Fontana, il segno diventa materia, lo spazialista milanese, lo insegna nelle installazioni di Albissola , un lungomare rivestito di ceramica. E la consapevolezza di Michele, ci porta lontano, non per chilometriche visioni, ma per etica e ragion politica, quella del primordio, perché sa bene, che il suo lavoro, non può non essere che una sospensione, senza un inizio nè fine;
Picasso, infondo, ostinato iconoclasta, ne trovava l’appiglio, riluttando le facile etichette ma vedendo i selvaggi africani come suoi predecessori. L’artista catalano, ci indicava che l’arte deve essere atavica, proprio per la sua peculiarità interiore, ancestrale insomma. Quella sospesa nel tempo, quella che, poteva permettersi, di attraversare il tempo ed essere immortale. Ma Picasso come Ciacciofera, conoscono benissimo gli antichi padri, i loro precursori , i primordiali, gli arcaici, coloro che, non si collocano in una specifica scuola nè epoca, purchè l’urgenza deve tradursi in una nuova estetica. Picasso addirittura, ne l’aveva manifesti politici. Michele, poi, non è affatto ingeneroso o criptico, egli infatti, ci fa partecipi di qualcosa di corale, oggi, le sue installazioni lo sono sempre più, e trovano corpo nelle solitarie vite, che nello spazio immobile, trovano l’arcano del tempo, il loro. Un cosmo intraducibile e misterioso fatto di relitti? e quelle installazioni, così psicologiche tanto silenziose, così profonde nel loro logos, arrivarci come lotte interiori, intestine .
Ma il lavoro di Michele, è sempre mutevole e, la sua è metamorfosi di una pittura tanto decantata quanto discussa, cioè, idee in continua evoluzione, fatte di bozze in primis, che illuminanti, ne rilevano, plastiche materie, spesso, in vitree ceramiche variopinte, a volte cristallizzarsi, in una carnalità sfaldata, quasi a ricordarmi, quei corpi sepolti da un magma, mnemoniche presenze forse, di malcapitati romani sotto le macerie della sfortunata quanto dorata Pompei . Michele è un pittore, così colto, da compenetrare la sua ricerca interiore, in una specie di archeologo delle forme, dell’antropomorfico, e senza deleterio, quello di cui, non conosciamo l’identità, ma ne sappiamo il discernere la forma, per quella brama, appartenere da sempre all’umanità, l’anima, quella che , non conosce il tempo.
Rivedo ancora, nei suoi cicli, che ci accompagnano fin qui, i disegni dei prigionieri, in quei carboncini così fuligginosi, da sembrarci essenziali e incisi nell’esistenza della linea tagliente : prigionieri solitari, forse in uno dei suoi viaggi nel medio oriente? o nelle calanche di eremiti deserti, come Ulisse ne volle trovare un sapere attraverso la scoperta di nuovi mondi, che ad oggi, ci parla di squilibrio, forse politico, forse sociale, o teocratico, di cui, si presagisce il trasformismo del globo, financo occidentale come un Itaca perduta per lo stesso Michele, che è un pittore, non scordiamolo, non indenne alle problematiche etiche e politiche. Egli, ci parla sottilmente dei diritti, quelli, vissuti nella vicenda personale, che lo stesso artista porta con se, come “masso sul giornale” attaccato con un nodo che non si scioglie facilmente: un quotidiano, portarci una notizia come una pietra pesante da sostenere, viceversa, avremmo voluto aspettarci la leggerezza dell’essere, invece no, quel divenire è un dramma dietro l’angolo, quello inaspettato. Michele , è un filosofo, ma più umanista visivo, perché la tragedia del presente, è quella del tempo, che, ripercuote la mnemonica condizione dei diritti negati, e quelli che, segnano i percorsi, a volte indicibili , a misteriosi sentieri della vita, dell’ inganno e della tracotanza.
Problematiche queste, che smuovono le domande ai più sensibili, ai veri e ai puri.
Problematiche alle quali, diversamente, le dottrine non portano che a quell’insofferenza tanto perniciosa alla libertà individuale.
A volte, la lezione di Picasso intellettuale, ci riporta tra le due guerre, colui che di notte, sapeva nascondere i capolavori del Prado nei rifugi di campagna, quei capolavori della storia spagnola , dei maestri che gli furono così cari, che minacciati dal saccheggio fascista, egli stesso, ne sapeva cogliere che “l’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità”.

 

 

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