Parvenu

Parvenu – “Colpito da una fulgida luce” nella fotografia di Giovanni Chiaramonte

Colpito da una fulgida luce. Questo, ciò che mi è rimasto, dopo aver visitato e rivisitato una mostra di Giovanni Chiaramonte (la visitai per la prima volta alla Corte Capitanale di Caltagirone, allora diretta da Sebastiano Favitta nel 2000). Ma detto così, sembra una semplificazione, quasi grossolana.
Già, perché Giovanni, sa benissimo del suo leitmotiv, del fotografo, che, non è tecnico né illustratore di folklore. Essere siciliani poi…Quella luce, dunque, nel verbo atavico di chissà quale voce divina, arrivatoci dagli antichi, e dagli atavici padri della visione, del trascendentale, che attraversa l’animico quanto al ralistico, tradurne il quotidiano.

Le scene, quel vero, quel sociale, quelle spiagge popolari e operaie, senza esclamativi né campanilismi, ma solo gioie del facile vivere. La figurazione di Giovanni, è, a mio avviso, una delle più colte e umili allo stesso tempo, ch’io abbia mai conosciuto nella storia dell’arte. Lo stesso, pensai , quando vidi le albumine (sensibili lastre fotografiche)di Giovanni Verga, per non parlare di uno qualsiasi. Nel verista catanese, ci si rivolgeva alla stessa visione, come a un distillato del vivere tra i libri e i manoscritti, con lo sguardo di un sapiente artista visivo, né più né meno, osservare la vita attraverso le movenze e i ritratti degli umili. Ma non è parallelismo, non è didattica o plagio, i due siciliani hanno molto in comune, e spero di poterne spiegare qui. Quel comune denominatore, un filo rosso, che mi riporta alla visione tanto distaccata col presente, da essere sofferta e vissuta. Non è voyeurismo ma voyant(del vedendo), cioè, colui che osserva consapevolmente.
Lo sguardo consapevole della coscienza che si rivolge ai vinti e non ai vincitori. Presagio che, poi, vedrà registi italiani del neorealismo, raccontarne linguaggi e temi. Del resto , Verga, ce ne parlerà pure, e per lui, i malavoglia, ne toccarono “il vero” dilemma: quello dei vinti. Ostico parlarne. So che la Sicilia, li riguarda, e l’infanzia sarà la loro vera scoperta, perché memoria, ragione dell’incanto, scoprire il mondo con gli occhi di un bambino, chissà cosa videro, chissà perché, questa, che definiamo inquietudine, debba tradursi in cristianità, seppur Verga distaccato quasi da eretico, con il mondo ecclesiale, ma da agiato aristocratico, pone il proprio sguardo agli umili. Ma Chiaramonte, mi fa pensare che, alla sua prima età, nei viaggi tra Varese e Gela, ne avrà vissuto lo stupore, la curiosità che ci porta verso le abbacinanti spiagge di Gela, le estati della carne al sole, dei vinti, quella degli operai, dei corpi assolati dall’arsura gelese, dagli odori acri e salmastri delle rive che conducono dalle valli al mare, di quella natura endogena di cui egli, trova rifugio, forse un romanticismo delle cose, ma pure, nell’urgenza del dramma, rappresentarne le sue prime pellicole “pasoliniane” degli anni ‘70, come ad una specie di debutto, della problematica e complessa trasformazione di un territorio, verso l’era industriale, quella che ci accompagnerà fin qui nell’oblio dell’inquinamento e della falsa illusione del benessere, egli ne vedeva già con presagio, un pezzo indigeno svanire nel tempo.

E Verga, seppur diametralmente all’opposto dal suo tempo, gli accade uguale, pezzi di umanità, fagocitati dal latifondisti e dai trasformismi industriali, incombente minaccia al vero progresso, quello delle terre e del sudore di un popolo autoctono. E la fotografia, diventa responsabilità, realismo, oltre, a svelarci, ciò che la luce e l’ombra, già ne rivelassero il loro dilemma di vita.
Personalmente, non amo le etichette, seppur l’autore, arriva a parlare di se. Il “presente infinito”. Ma io, per natura, sento di carpirne i significati che stanno in mezzo, tra un Chiaramonte giovane ed uno maturo. E, cosa ci sia ancora, dentro quella luce color miele, e quelle colonne doriche, che, iniziano da terra, come fondamenta di civiltà, come radici di albero, ricucire, quell’orizzonte del mare, ricondursi con il cielo. La presenza dell’uomo, nelle sue immagini, non è meno, per lo scenario, per l’ineffabile, e per il sacro mistero della vita, che, porta verso il volto di Dio, non quella della sezione aurea, ma per aver colto il sacro nella luce, l’invisibile. Questo vuole dirci Giovanni, vuole farci vedere ciò che non vorremmo o siamo abituati a vedere. Ma l’artista non ci costringe, lo fa con la carezza di un riverbero di luce, riflesso che deriva da colui, che, ci invita tacitamente a rivelarci il cosmo, fatto di luce e ombra dai mille colori variopinti.
Io non so, se Giovanni ha mai letto i manoscritti del filosofo Rosario Assunto su Argan. Ma c’è un bel paragrafo, che, sembra essere appeso nell’obiettivo fotografico del gelese. Assunto, ci fa una lezione su cosa è edificante e circolante nel tempo e nello spazio, attraverso l’orizzontalità devastatrice dell’uomo progredito, l’architettura che occupa. E, ci parla di un albero e delle sue stagioni, il tempo circolare, quello che dovrebbe riguardare l’occupare gli soazi. Nel ripetersi e rinnovarsi, spogliarsi e germogliare, appunto, per quel tempo circolare, aspettando la propria stagione. Finché l’albero, non occupi spazi , bensì li rispetti. E in Chiaramonte, vale per una colonna dorica, tutta d’oro, riflettere un tramonto gelese, per poi salire fin su alla campana del tempio, l’edificazione circolare, di un manufatto tuttotondo, come scultura, o come natura dona arbusto nella sua prima edificazione della vita abitativa, essere da cerniera con il cielo. Mentre, nell’ occupare spazio, è sottrazione alla vita. Ma l’arte, non è filosofia, né stereotipo, l’arte è pulsione e sentimento, quella sintesi consapevole che, un artista colto ne fa del proprio linguaggio. Il paesaggio per Giovanni, non è paesaggismo, ma oserei dire, come ad un esterno psicologico, metafisico, ove, se ne avverte una interiorità, quella illuminante, che poi porta al click…Questo è Giovanni per me, colui che si serve del suo sguardo per dominare la luce che lo assale, come architetto di luce, scolpisce ed edifica lo scenario compositivo; da verticali elementi, frammentati tra la luce e l’essere; Colonne, alberi , viali, edifici, che si dissolvono eterogenei come una boccata d’ossigeno, per chi, ne fa, della propria vita, la fuggevolezza della memoria, della verità.
E quelle lunghe ombre, proiettarsi come esseri inquieti, presenze oniriche non traducibili, che, mi ricordano Giorgio DeChirico,

raccontarci da giovane, i suoi lunghi meriggi di Ferrara, nei soggiorni estivi, l’artista metafisico, profittava sui riposi pomeridiani come suggerimenti per nuovi dipinti. Da lì , nacquero le “piazze d’Italia”, quelle che rivoluzionarono il suo genio nelle colonne di templi e figure classiche, e dai treni passare come passa il tempo: un’ora non reale. Giovanni Chiaramonte , è senza dubbio, tra i maggiori fotografi viventi . Ispiratore e amico di Luigi Ghirri; ha collaborato con Andrej Tarkovskij, e sue opere figurano tra i più importanti musei italiani e dei vari Guggenheim; alle quattro Biennali di Venezia; ma sopratutto, Giovanni è gelese dal cuore vero…

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