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“Laddove comprenderemo che i pezzi di storia sono pezzi di noi, apprezzeremo il loro valore paradigmatico”

Ospitiamo oggi la dott.ssa in Lettere classiche, Roberta Dainotto, dottoranda in Oratoria forense, area greca presso l’Università di Creta, al momento distaccata presso l’Università di Edimburgo per approfondimenti e ricerche conclusive, per una riflessione sui rinvenimenti che da mesi arricchiscono il lungo elenco di testimonianze nelle pubblicazioni scientifiche su Gela ma non arricchiscono la città dal punto di vista economico.

Edimburgo – Lo scorso Aprile il Comune ha dato il via a dei lavori straordinari di manutenzione idrica per l’interramento della nuova rete con adeguamento delle tubature nell’area territoriale. L’impegno richiesto, esoso e di ingenti pretese, si è rivelato più consistente del previsto, prolungandosi in itinere per il rinvenimento inaspettato di resti archeologici che ci ricollegano a un passato glorioso, il quale ha convissuto in tutti questi secoli con noi, rimanendo silente al nostro incedere, sempre pronto ad emergere sebbene calpestato da un tentativo di modernismo a tratti nefasto.

La scarifica del manto stradale ha riportato alla luce assi stradali antichi e pezzi di rilevanza storica i quali erano rimasti nell’oblìo per secoli interi. L’insorgere di questi resti ha determinato il pronto intervento della Sovrintendenza, intenzionata a tutelare e conservare al meglio tali reperti mediante un percorso di studio e catalogazione parallelo a quello di manutenzione idrica, fitto e incessante, teso a non azzerare il parallelo svolgimento dei lavori ordinari.

La prima risposta pubblica a tale circostanza è stata un sentimento condiviso di orgoglio per l’appartenenza a una società tanto straripante di fasto passato. Del resto, il rinvenimento, in una zona così pregna di storia i cui primi insediamenti iniziarono nel V millennio e si estesero sino all’acme con la formazione della colonia dorica nel VII secolo a.C., è stato considerato dai più quasi inevitabile. Al tempo stesso, però, esso ha generato l’insorgere di uno stridente sentimento di insofferenza per l’immediata paralisi delle strade trafficabili, le quali hanno subito continue deviazioni nei mesi sacrificando la circolazione urbana. Anche questo aspetto, sebbene più fastidioso del precedente, è da considerarsi prevedibile considerando la simultanea gestione lavoro idrico-catalogazione di rinvenimenti.

Il macchinoso promuoversi di queste opinioni con annesso incremento delle stesse, ha quasi scisso l’opinione pubblica, e ha aizzato interrogativi sull’utilità effettiva di proseguire con questi lavori paralleli o di chiudere tutto e favorire l’immediata fruibilità urbana.

Mi permetto, ospite di questa testata, di dedicare alla questione una breve riflessione la quale non vuole opprimere altre voci o pensieri, quanto proporsi come punto di innesto per rinnovate (ri-)valutazioni. Tale considerazione pertiene il problema sociale sebbene si scansi da esso e lo consideri un paradigma socio/valutativo.

La società che ci ospita è una realtà mobile, in ineludibile mutazione, acutamente volta al perfezionismo, sebbene, quest’ultimo, dai tratti spesso supposti e millantati, più che effettivi e reali. Viviamo con la convinzione che nell’èra del 4.0 tutto sia possibile o tracciabile. Siamo naturalmente portati a qualificare come unicità (storica, personale, etc) l’hic et nunc, quello, ovvero, che ci accade nell’immediato, immemori o incuranti del passato o della prospettiva. Spesso perdiamo consapevolezza che l’ora altro non è se non un momento soggetto al divenire e che muove i passi sull’insegnamento, o talora sulle impronte, di epoche e personalità pregresse, le quali dovrebbero essere guardate con ammirazione piuttosto che con sospetto o intese come generatrici di fastidi. È importante, nonostante consideriamo noi stessi e l’età contemporanea il culmine socio-culturale, apprezzare e accogliere altri fattori di notevole rilevanza.

Nella fattispecie, l’inattesa emersione del passato non può né deve in alcun modo essere intesa come intralcio alle nostre attività, sebbene temporalmente condizioni alcuni meccanismi mentalmente intesi come automatici, quanto come incentivo per gli sviluppi che, in chiave diacronica, essa può offrire al territorio. E questo non solo da un punto di vista materiale, ovvero per i risvolti che può comportare come il ritorno di immagine e la crescita da un punto di vista economico, quanto, e forse ancor più, sul piano culturale. L’accettazione che esista (ancora) qualcosa al di là di noi determina la consapevolezza della limitatezza del sé e la riscoperta che la completezza sia la risultante di più fattori.

Una domanda da porsi con umiltà cognitiva è, a questo punto, quanto e in che modo i reperti archeologici influiscano nel processo di definizione dell’identità. La scoperta di pezzi di storia permette non solo la comprensione di un passato cristallizzato e distante, ma anche il diretto rapporto con esso. E un comune come Gela, il quale è stato spogliato di quanto di più caratteristico e solido l’abbia nutrito nei decenni, e data in pasto a voci trainanti non sempre desiderose del bene comunitario, ha estremamente bisogno di questo approccio e di questa consapevolezza. Prendo, a tal proposito, in prestito un estratto del De brevitate vitae (10. 2-5) in cui Seneca tripartisce il tempo dell’esistenza umana riconoscendo la convivenza tra passato, presente e futuro (quod fuit, quod est, quod futurum est), conferendo una sfumatura di sicurezza solo a quanto è stato. In questa frase risiede quanto di più reale si possa affermare tuttora. Nel passato vive quanto è accaduto, e quanto ha lottato in un allora presente per permanere nel futuro. Al tempo stesso, quello che è ora fiorirà, in positivo o in negativo, domani. Queste tre sfere temporali quindi, trovano la loro affermazione solo in un dialogo reciproco e costante. La tripartizione vince solo se coesa e compresa a fondo. E così il potere di un rinvenimento non risiede in una piacevolezza fine a sé stessa, bensì nella sua esclusività e permanenza, rappresentando l’aura di un territorio e di un mondo efferato che ha potere su di noi quasi senza tangerci. Laddove comprenderemo che i pezzi di storia sono pezzi di noi, spogliandoli di quell’astrattismo alienante, apprezzeremo il loro valore paradigmatico e la lezione che a gran voce impartiscono. Quanto è fatto bene permane nonostante i tempi avversi. Quel mondo dai tratti a volte sfuocati, altro non è se non una rappresentazione atavica del nostro.

Alla stessa maniera, in una città in divenire, alla ricerca (ancora!) di una sua definizione, dovremmo approcciare determinati eventi alla stessa maniera, riconoscendo quanto il ritrovamento di resti non può che rivelarsi propizio per lo sviluppo presente, un compromesso da accettare per scoprire chi siamo e cosa potremo essere.

dott.ssa Roberta Dainotto

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