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La tassa sui servizi invisibili… pagata con moneta unica!

Concetta era affannata, poveretta

Si dibatteva da una porta all’altra, in mezzo ad una calca di persone, intenta a chiedere un pò a tutti dove fosse l’ufficio competente per la Tassa sui servizi INVISIBILI. Il marito le aveva detto così e lei, da buona siciliana, ne riferiva le testuali parole, ripetendole quasi ossessivamente. “Devo pagare la tassa sui servizi invisibili” –diceva-. Non riusciva però ad ottenere l’attenzione sperata da nessuno dei presenti, tutti presi dai loro avvisi di pagamento e infastiditi dalla folla. Nessuno le prestava ascolto, almeno finché un distinto signore di mezza età, riusciva a farsi interprete di quella richiesta e le chiedeva: “Signora non è che per caso si riferisce alla TASI, cioè alla tassa sui servizi INDIVISIBILI?”. Concetta, dopo un attimo di esitazione, esclamava a gran voce “SIIIIII é quella!”. E tutta soddisfatta, iniziava a recarsi la dove il distinto signore le aveva indicato.

Non è un aneddoto di fantasia -fuorché in relazione al nome (Concetta)-. E’ infatti un episodio assolutamente reale a cui abbiamo assistito qualche giorno fa nei locali del terzo piano del Comune e cioè nel corridoio degli uffici presso cui i cittadini si recano a chiedere chiarimenti in merito al pagamento dei tributi locali.

E’ un fatto che sebbene possa risultare per molti aspetti ilare, in realtà mette in luce quello che è il rapporto dell’italiano medio con le tasse: paga perché deve pagare, escludendo, però, pressoché a priori, che quel pagamento possa essere foriero di alcun ritorno in termini di servizi da parte della Pubblica Amministrazione e, più in generale, dello Stato. I servizi sono talmente assenti –o tanto mal resi- da essere percepiti come “invisibili” ma comunque generatori di un balzello da pagare o meglio da subire.

Il cittadino cioè non percepisce la sua identità di “contribuente” (inteso come soggetto che, appunto, contribuisce, con il suo, al mantenimento della cosa pubblica che in quanto tale in qualche modo appartiene anche a lui) ma sente di essere una persona che subisce un’imposizione fine a se stessa.

Lo sapete quante sono le tasse che gli italiani pagano? Più di cento!

IVA, IRPEF, IRES, IPT, IMU, IAS, IRAP, TFR TOBIN TAX, TOSAP, TIA, TARSU, TARES, TARI sono solo alcuni degli acronimi delle tasse ed imposte varie con cui abbiamo avuto regolarmente a che fare; chiaramente oltre a bolli auto, imposte sui tabacchi, sulle sigarette elettroniche, sulle successioni e donazioni, sui servizi scolastici e, da ultimo, sulle merendine, sulle bevande zuccherate e anche su quelle gassate.

Si ha in pratica la sensazione che su ogni cosa che si muova o si produca, lo Stato debba sempre e comunque avere la sua parte, a prescindere da un possibile contraccambio in termini di servizi. La sensazione di Concetta -quella di dover pagare per servizi invisibili (o sarebbe meglio dire inesistenti inesistenti)- è quindi comprensibile, tanto più che di recente, per un’insana tendenza di una certa parte politica, la tassa (o l’imposta) risponde ad una logica sostanzialmente sanzionatoria. Si pensi ad esempio all’ecotassa o alle già citate tasse sulle bevande gasate e zuccherate. No, direte voi: la tassa ha la funzione di disincentivare l’assunzione di sostanze nocive per la salute ma, a ben vedere, in effetti si tratta pur sempre di sanzione se si considera che con la misura si va ad incidere su quella che è la libertà personale di autodeterminarsi anche riguardo alla propria salute –che peraltro dovrebbe essere un diritto di rango costituzionale (ma pazienza…)-.

Certo è che fa, però, un pò specie il fatto che quella (certa) parte politica si batta per la LIBERTA’ della persona a poter porre termine alla sua vita (cioè a praticare l’eutanasia) ma vada poi a sanzionare la LIBERTA’ di poter bere una coca cola!

Contraddizioni dei nostri tempi.

Pare che lo Stato si voglia imporre sul cittadino, anche imponendogli costumi ed alimenti; il tutto condito da una sorta di umiliazione continua. Buona parte dell’establishment, ad esempio, accusa gli italiani di essere evasori ma c’è dell’altro che non vi dice e che depone a favore del nostro popolo.

Anzi a voler ben dire se l’evasione fiscale è un dato presuntivo -giacché non esistono criteri con cui poter determinarne con certezza l’entità (e quindi anche l’asserita propensione degli italiani ad evadere)- i dati che appalesano il nostro “grande cuore” sono oggettivi: circa 870 miliardi di euro di tasse all’anno è la cifra che noi italiani paghiamo all’erario, cioè circa quaranta in più rispetto all’ammontare complessivo medio degli altri europei, compresa Francia e Germania!

Una cifra davvero spaventosa, equivalente a circa 14.500,00 € per ciascun italiano. Vale a dire che in media una famiglia di quattro componenti versa qualcosa come 58.000,00 € di tasse all’anno allo Stato!

Evasione o non evasione è acclarato, quindi, che siamo i maggiori pagatori d’Europa!

Ma v’è di più! Molto di più!

Da ben vent’anni il nostro paese è in avanzo primario. Sapete che significa?

Credo di si ma visto che ripetere (o semplicemente ricordare) a volte giova lo spieghiamo.

Significa che da circa vent’anni lo Stato incassa più, in tasse, di quanto spende per pagare beni e servizi necessari al suo sostentamento (cioè per sostenere la cosiddetta spesa pubblica). Quindi sappiate che se vi dicono che i servizi sono carenti perché non tutti pagano le tasse vi stanno mentendo clamorosamente.

Quindi -vi chiederete- che fine fanno i nostri soldi?

Ve lo diciamo noi: una discreta quantità (circa 15 miliardi di euro l’anno, ovvero circa 1.000,00 € per l’ipotetica, solita, famigliola composta da quattro persone) li versiamo all’Unione Europea solo per poterne far parte, mentre una notevole quantità (circa 4.000,00 € l’anno per la stessa famigliola) vengono destinati a ripagare gli interessi sul debito pubblico. Ma non storcete il naso perché quantunque il debito pubblico sia stato trasformato (anche a livello di percezione collettiva) in un vero e proprio “mostro cattivo” in realtà non lo è, o meglio non dovrebbe esserlo. Non è difatti un debito contratto perché “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità” (come troppo spesso impropriamente si dice) o per pagare gli stipendi dei politici o, ancora, per coprire le ruberie di qualche lestofante: queste cose incidono infatti, tutt’al più, nella spesa pubblica, ossia in quella somma di danaro ampiamente coperta dalle tasse.

Il debito pubblico in realtà è il danaro che lo Stato deve a cittadini, imprese e vari soggetti economici che hanno acquistato titoli di Stato (BOT, BTP, CCT, etc.) con danaro (si presume) di lecita provenienza e, spesso, frutto del proprio lavoro. E peraltro quello italiano è al 70% interno (cioè detenuto da soggetti italiani). Quindi, al contrario di quanto il mainstream asserisce il debito pubblico è una sorta di MERITO (e non di certo una COLPA) perché è l’indice più naturale e diretto della laboriosità e della produttività dei cittadini, tanto da potersi chiamare anche CREDITO PRIVATO.

Il Giappone, ad esempio, ha un debito pubblico altissimo -addirittura doppio a quello italiano in termini percentuali rispetto al PIL-, che continua peraltro a crescere di anno in anno, proprio perché –com’è notorio- è una delle realtà economicamente più produttive al mondo (fig. 1).

Allora vi chiederete: perché il Giappone non ha gli stessi problemi dell’Italia?

E qui le cose si complicano perché per poter rispondere dovremmo sviscerare i concetti di sovranità monetaria, banca centrale italiana ed europea, lira, euro, etc., avventurandoci in argomentazioni sicuramente controverse e non accessibili a tutti.

Per ora ci limitiamo a constatare alcuni irrefutabili e semplici fatti, a partire dai quali potremo, eventualmente (editore permettendo), sviluppare delle riflessioni future.

In estrema sintesi possiamo affermare che il debito pubblico è iniziato a diventare un grosso problema dal momento in cui lo Stato si è man mano privato della possibilità di ripagarlo da se stesso con l’emissione di nuova moneta o di nuovi titoli di debito (operazione, quest’ultima, assolutamente possibile e non controproducente nel caso in cui lo Stato è titolare dell’emissione di nuova moneta).

Quando ero ragazzo sentivo a volte pronunciare nei confronti delle persone più abbienti, l’espressione “Si cchiu riccu do governu!” (trad.: “Sei più ricco del governo”). Orbene tal modo di dire era oltremodo denso di significato perché valeva a rappresentare l’essenza dello Stato di entità che non solo disponeva di notevoli risorse patrimoniali ma che, soprattutto, aveva autorità sul danaro. Aveva cioè la facoltà di disporne e controllarne l’emissione (la creazione di nuova moneta) attraverso il Ministero del Tesoro e la banca centrale ad esso sottoposta.

Oggi lo Stato non è più ricco: per converso è povero ed indebitato. Perché? Semplicemente perché ha perso queste facoltà cedendole ad altri soggetti e segnatamente alle banche private. Nell’arco degli ultimi 40 anni si è, da questo punto di vista, assistito ad un graduale processo di spoliazione che si è articolato e perfezionato in tre momenti salienti: dapprima, nel 1981, attraverso la perdita del controllo del Ministero del Tesoro sulla Banca centrale nazionale; poi, nel 1992, per mezzo della privatizzazione di quest’ultima ed infine, nel 2002, con l’entrata dell’Italia nell’euro e quindi con la cessione della sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea (che altro non è che una corporazione delle varie banche centrali nazionali dei paesi membri dell’Unione Europea, anch’esse private).

E’ così che lo Stato italiano ha perso la possibilità di “dotarsi” del “suo” danaro e si è sottomesso, a tal fine, a delle entità private che incredibilmente gli prestano danaro che non posseggono e che creano dal nulla, senza che sia dato di comprenderne la ragione per la quale questa “operazione” non possa compierla direttamente lo Stato stesso.

Si tratta di un “mistero” che diviene ancor più incomprensibile se si pensa al fatto che allo Stato è concesso di emettere monete metalliche, ma non carta moneta o moneta elettronica! In buona sostanza il danaro circolante in monete metalliche è l’unico che non genera debito pubblico all’atto dell’emissione in quanto viene “creato” direttamente dallo Stato. Ciò vale a dire che se oggi, come nell’antichità, tutto il danaro circolante fosse in monete di metallo (anziché cartaceo o elettronico) il debito pubblico non esisterebbe!

Dal totale assoggettamento alle banche private (perfezionatosi con l’entrata nell’euro) è susseguita (in senso temporale) un’inarrestabile crisi economica per il nostro paese. Ed infatti l’Italia è stata in continua crescita dal dopoguerra fino, appunto, agli anni dell’entrata nell’euro. Il reddito pro capite –che esprime il benessere economico delle famiglie al di là di ogni possibile questione monetaria, compresa l’inflazione- negli anni precedenti all’euro era in continua crescita, rispetto a quelli degli altri paesi dell’eurozona (fig. 2).

Dal dopoguerra fino all’euro l’Italia visse un trend favorevole che la condusse a qualificarsi, nel 1991, come la QUARTA POTENZA ECONOMICA MONDIALE, davanti ad Inghilterra e Francia; trend che però iniziò ad invertirsi proprio in coincidenza, appunto, dell’adozione dell’euro in Italia in luogo della lira. Sia ben chiaro: non stiamo traendo la conclusione che l’Italia sia entrata in crisi per colpa dell’euro -sebbene ciò parrebbe anche ovvio vista l’evidenza del nesso temporale, peraltro di duplice natura (fine della crescita ed inizio della crisi)- ma ci stiamo solo limitando, almeno per adesso, a constatare un fatto oggettivo;

I vari governi succedutisi dall’euro in poi, al di là di ogni (loro) possibile colore politico, non sono riusciti ad innescare un processo virtuoso di re-inversione del trend in senso favorevole per l’Italia e nel momento in cui avrebbero voluto tentare di farlo attraverso misure -che potrebbero pure essere discusse nel merito (come ad esempio l’aumento del deficit)- sono stati puntualmente inibiti e censurati dagli organismi sovranazionali dell’UE con delle imposizioni che talvolta hanno assunto anche un sapore vagamente beffardo (si pensi ad esempio al 2,40% di rapporto deficit/PIL previsto dal governo giallo-verde che si dovette ridurre al 2,04%, pur a fronte di una regola che prevedeva un massimo del 3%).

Al di là dei vari proclami ai nostri governi non è stato (reso) possibile adottare provvedimenti realmente efficaci per poter far fronte alla crisi: incatenati ai rigidi (e parimenti incomprensibili) vincoli di bilancio imposti dall’UE –tanto da dover inserire, in Costituzione, l’inconcepibile pareggio di bilancio (con buona pace di Keynes e dei maggiori economisti della storia)-, hanno potuto agire solo marginalmente a livello economico, senza poter incidere significativamente nel senso della crescita economica.

Ad esempio: un gran parlare si è fatto (e si fa ancora) del taglio dei parlamentari seppur, in realtà, il “beneficio”, in termini economici, ammonta a soli 8 centesimi al mese per cittadino; meno di un euro (in pratica un caffè!) all’anno.

Ma c’è da chiedersi: 8 centesimi al mese valgono per davvero una minore rappresentanza popolare in parlamento? E ciò in Italia ce lo dovremmo chiedere più che in ogni altro paese europeo visto che, già prima del taglio eravamo al ventunesimo posto in Europa per rappresentanza parlamentare (fig. 3), mentre a seguito del taglio saremo all’ultimo posto in assoluto, dopo la Spagna!

Da questo punto di vista val la pena di ricordare che il taglio dei parlamentari era addirittura uno dei punto programmatici della Loggia Massonica P2 di Licio Gelli, i cui obiettivi non erano di certo orientati in senso democratico e non erano, di certo, nemmeno del tutto leciti (sul punto giova ricordare che la P2 fu denunciata dalla Commissione d’inchiesta sotto la presidenza del Ministro Tina Anselmi come una vera e propria “organizzazione criminale” ed “eversiva” e di conseguenza fu sciolta con l’apposita legge n. 17 del 25 gennaio 1982).

In sostanza il taglio dei parlamentari prima ancora di essere una misura adottata dal governo giallo-verde era stato uno degli obiettivi prefissati da un’organizzazione che avrebbe voluto sovvertire l’ordine costituito della nostra Nazione!

La perdita sarà particolarmente grave per la Sicilia perché essa perderà 29 seggi!

La misura ha quindi tutto il sapore di una mera limitazione di democrazia e diviene addirittura una sorta di beffa se si considera che in quello stesso martedì 8 ottobre 2019 in cui la Camera dei deputati approvava il taglio dei 345 parlamentari, veniva anche pubblicato il concorso per 60 coadiutori parlamentari, peraltro da sommare ad altre 300 assunzioni che si prevedono nell’immediato futuro fra consiglieri, segretari, documentaristi ed assistenti.

Il pratica il governo si è privato di 345 rappresentati del popolo per dotare la macchina dello Stato di 360 burocrati, con l’incredibile conseguenza che anche quel (pur minimo e risibile) beneficio economico di 8 centesimi al mese per abitante, sarà azzerato, se non addirittura convertito in un maggior onere!

A questo punto dovremmo concludere, e dovremmo farlo formulando una proposta di soluzione. Ma non lo faremo. Non lo faremo perché vogliamo lasciare indenne questa breve riflessione da critiche di sorta e da possibili censure di merito; ragione per la quale abbiamo ritenuto di doverla impostare come una sorta di analisi, la cui unica finalità è quella di voler pungolare la riflessione di chi ha avuto la bontà di leggerla.

Una nota di chiusura ed un auspicio valido (ritengo) erga omnes è pur tuttavia inevitabile: auguriamoci che in un futuro non troppo lontano la nostra Nazione possa tornare ad essere quella di un tempo e che ciò possa avvenire sotto l’egida di uno Stato che torni ad esser tale, che metta al centro della propria azione il benessere dei cittadini e che sia messo in grado di farsi garante dei diritti sociali delle persone (e non solo di quelli civili); uno Stato che si riappropri della sua intrinseca ed irrinunciabile signoria sulla moneta per affrancarsi dal ricatto dei cosiddetti “mercati” e, così, riscoprire la reale, primaria, funzione del danaro di mero mezzo di veicolazione di beni e servizi e di strumento premiale del merito.

Tutto ciò –lasciatecelo dire, per concludere con una nota di simpatia- anche per far si che Concetta non possa più sentirsi obbligata a pagare una tassa per i servizi invisibili.

Arch. Roberto Loggia

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