editoriale

La novella del Podestà contro le gazzette

C’era una volta una città gloriosa sulla quale pendeva una terribile maledizione. La città dalle vestigia importanti era stata una potenza marinara dell’antica Grecia. Un tempo però. Dopo millenni aveva subìto alterne vicende: vi erano passati gli arabi, Federico…… e I vandali! Dopo il salvatore, Aldisio, non aveva visto più luce nel suo regno dorato. Perfino il mare era divenuto scuro a causa dell’oro nero che vi versavano dentro. Tanti erano stati i Podestà che avrebbero voluto salvarla, ma la maledizione aveva coperto anche loro. C’era qualcosa nell’aria grigia del Palazzo della Casa comune che ottenebrava le loro menti: i propositi salvifici, svanivano quando poggiavano le loro regali terga in quella poltrona contaminata dallo strale malefico. Ad uno ad uno sparivano i Podestà, vittime dei loro cortigiani pretenziosi e di loro stessi, del maleficio che ottenebrava le loro menti. Dopo tanti giganti nell’aspetto e piccoli nell’animo, nell’anno domini 000010 fece capolino, un piccolo uomo. Piccolo ma determinato. Era nato da una famiglia piccolo borghese, aveva studiato le tavole della legge ed aveva deciso di salvare la città gelata dal male. “La salvo io – aveva detto – riporterò l’acqua che non si vede da anni; renderò linde strade e spiagge dieate; darò ai poveri e toglierò ai ricchi”. E cominciò la lunga scalata verso il Palazzo cavalcando l’onda trasparente del miraggio – acqua: mise insieme manipoli di uomini per denigrare i Potestà al potere e illudere i poveri geloni assetati. Al primo tentativo non riuscì nell’impresa: un uomo più grande di lui vinse la partita. Forte della prima sconfitta, dopo tre anni, mise insieme una quantità di ometti. Di tutti i colori. Pur di farsi spingere verso il Palazzo fatato. Era buono. Aveva promesso tutto a tutti. “Rivolteremo la città gelata – disse – giuro sul mio onore;  sarò il paladino dei meno fortunati. Giuro che sarò il Podestà dei bianchi, dei rossi e dei gialli; di tutti. IO sarò l’albero e voi i rami”. Tutto, fino a quando i geloni creduloni lo hanno portato in trionfo al Palazzo incantato. Poi tutto cambiò. La coltre soporifera cominciò a fare effetto come la metamorfosi kafkiana. Dall’oggi al domani, il piccolo uomo cominciò a cambiar voce, tono, proponimenti; il volto sorridente prima si faceva scuro. Faceva attendere alla porta gli assessor che siedono al suo lato; i suoi bracci destri e sinistri. Elargiva incarichi ad amici e parenti. Il resto, tutti a guardare… Urlava ai consiglioti ma taceva di fronte ai dirigioti, mentre il popolo rumoreggiava: “ci hai promesso tanto e non abbiamo niente”. I gazzettini per indole e virtù odevano il lamentar del civitote ed amplificavano l’urlo come un’eco. “Cattivi, cattivi – disse il Podestà – si deve dire quello che proferisco io e non altro! Cattivi; so io quel che si deve far!” Il Podestà quindi, scimmiottando un predecessore in crocetta,  prese parte del pubblico oro versato dal civitote e lo usò per assoldare un gazzettino abusivo senza titolo e senza supervisor ed un altro proveniente da altra civitas per glissare chi, anni prima, aveva usato per salire al trono, per diffondere le veline di regime. I gazzettini indigeni riuniti nel sinedrio, ritrovarono l’armonia perduta e blindarono le veline di potere. Nel frattempo nel Senato le dispute erano sine die, fin quando il Podestà restò solo e come tutti gli altri dovette esiliare nell’isola che non c’è: Sparito , dimenticato.

Morale: Mai ergersi a dittatore, si finisce a testa in giù

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