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È morta Franca Valeri, addio alla comicità femminile che sapeva graffiare: aveva appena compiuto 100 anni

Se n’è andata con la consueta signorilità un’amica di tutti, un’attrice intelligente che aveva saputo fare della sua ironia e della sua capacità di osservazione l’arma vincente di una comicità al femminile: le sue donne, invadenti e malinconiche, raffinate e plebee, illuse e deluse, rimangono agli atti di una società. Alma Franca Maria Norsa, all’anagrafe milanese, non era solo l’autrice della Signorina snob popolarissima alla radio di quel periodo post bellico: Valeri (nome prestato da Paul Valery) raggiunse il grosso pubblico della sora Cecioni con le mitiche apparizioni tv a Studio Uno, proponendo anche lo stile intelligente di un humour critico come nel Teatro dei Gobbi da lei inventato. È stata uno straordinario talento comico, in una società che per ridere aveva sempre scelto gli uomini, e una forza dello spettacolo totale: cinema, teatro, lirica, radio, tv oltre ad essere quasi sempre autrice dei suoi testi.

Finché ha potuto è andata in scena: ogni sua apparizione (Sorelle ma solo due, Tosca e le altre due, Mal di madre, Possesso e Oddio mamma) contagiava per simpatia il pubblico. E ogni volta era come se questa signora riportasse in scena tutta la sua carriera, mettesse tra virgolette il suo genio, le avventure del passato e la noia per questo brutto secolo. Pur protagonista nata — l’irresistibile La vedova Socrate — aveva fatto coppia con colleghi di peso, dal marito Caprioli: la carriera cinematografica legata a sei film con Sordi, il Cretinetti del Vedovo, due temperamenti diversissimi che coabitavano e si rispettavano. I primi compagni furono Caprioli, Bonucci (e Salce) nel cabaret Carnet de notes, mentre alla radio la sua Signorina snob graffiava la Milano bene. In Valeri ci sono due anime, due ironie e due stili realizzati, con eguale padronanza di osservazioni, spirito e intonazione: la milanese dall’erre moscia e la Sora Cecioni, romana di media volgarità, al telefono (arma e strumento) con mammà.

Nata il 31 luglio 1920 a Milano, visse nascosta la persecuzione fascista (il papà ebreo fuggì col figlio) poi fa alleanza con la meglio gioventù, entra al Piccolo Teatro, amica di Grassi e Strehler e legge tutto Proust che le resta accanto una vita. Lanciata dal Teatro dei Gobbi, cabaret intellettuale che conquista Parigi, Valeri frequenta il cinema italiano ’50 che veniva dal teatro, concedendosi protagoniste e caratteriste di un umorismo non privo di malinconia, dal Segno di Venere con l’amato De Sica alle Signorine dello 04 con Peppino De Filippo. A teatro si scrive da sola le sue indimenticabili Donne e fortunati testi satirici (Lina e il cavaliere, Le catacombe, Non c’è da ridere se una donna cade) arrivando a indimenticabili duetti come in Gin game con Stoppa e alla regia della Strana coppia con Falk-Vitti e la Bruttina stagionata. Un vero sodalizio fu quello con Patroni Griffi, amico di una vita, che le dà una storica occasione vintage in Fior di pisello

Il suo affezionato pubblico le chiederà sempre le donne in golfini di cashmere e vestitini neri, con predilezione per le tremende madri dal plusvalore edipico, sociologia alla milanese col telefono a portata di mano. Ma la sua storia comincia da lontano: fu Mitzi, coreografa ungherese di Luci del varietà, voluta nel ’51 da Lattuada e da Fellini; e fu la soubrette anziana, parodia della Osiris, di Basta guardarla, irresistibile. Arrivata agli ’80 anni senza mai andare fuori moda, ma anzi lanciando lei le mode e continuando a spiare nei tormentoni di una società in cui non si riconosceva più, Franca Valeri lavora in tv ma non è più l’epoca felice dei sabati sera di Studio Uno, di Le divine, Le regine, un universo femminile grottesco che sfida il passaggio del tempo.

E fa la regista di lirica, organizza concorsi, si sceglie come figlia adottiva Stefania Bonfadelli, e sogna di tornare a sedere alla Scala. Come fa negli ultimi anni, quando riceve la laurea ad honorem alla Statale. Legata a filo doppio all’opera lirica, fin da piccola in un vecchio palco della Scala, s’è dedicata al melodramma, amando Maurizio Rinaldi, direttore d’orchestra di cui rimase vedova. E la passione dello scrivere non è mai venuta meno, a cominciare dalla biografia Bugiarda no. Fino all’ultimo condivise la vecchiaia con i molti amici a quattro zampe che popolavano la sua casa, un alternarsi di magnifici cani cui aveva dato il nome verdiano di Aroldo, in arte Roro, per sempre con lei. (corsera)

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