Politica

Soy sola. Il problema della leadership di Meloni agita la destra

Nel centrodestra i nodi si stanno aggrovigliando e non è detto che i leader riusciranno a scioglierli. Per le Politiche c’è ancora tempo ma il nervo scoperto non è solo chi sarà il frontman della coalizione, anzi in questo caso la frontwoman ovvero Giorgia Meloni. Il problema è più complesso, più insidioso per Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Si risolverà nelle urne, quando gli elettori assegneranno il primato a Fratelli d’Italia, se ciò avverrà come i sondaggi e le amministrative indicano ormai in maniera evidente. Soprattutto con la crescita del partito di Meloni anche nelle città della Lombardia e del Veneto.

La regola è quella che è stata sempre ribadita quando il primato ce l’aveva il Cavaliere e successivamente il capo del Carroccio. Adesso che le cose sono cambiate, sembra che non valga più. A farlo capire è stato lo stesso Berlusconi quando ha ripetuto ossessivamente in questi giorni che si vince al centro, con candidati moderati. Un messaggio chiaro per escludere Meloni e, coerenza vorrebbe, Salvini.

Chi dovrebbe rivestire questo ruolo non è chiaro, allora. L’ex presidente del Consiglio pensa al suo Antonio Tajani? Poco probabile. Ha in mente una figura al di sopra delle parti, un Papa o una papessa straniera? Letizia Moratti per esempio? Non è tra le ipotesi in campo se consideriamo che l’ex sindaco di Milano viene esclusa pure come candidata a governatrice della Lombardia. Lì si annuncia un’altra faida.

Rimane il fatto che non si vede come gli alleati possano negare a Meloni il diritto alla premiership se la regola d’ingaggio finora è stata che il primo partito della colazione esprime il nome che dovrà essere fatto al capo dello Stato. Sempre che questa parte politica dovesse avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Cosa che con il Rosatellum non è affatto scontato.

Il nodo della premiership è abbastanza stretto. Come dicevamo, però, è paradossalmente il meno rognoso. Ancora meno lo è l’imminente scelta del candidato governatore della Sicilia dove il centrodestra rischia di correre separato come è accaduto in alcune città domenica scorsa. Sarebbe una probabile sconfitta (é già accaduto) in una grande Regione, in autunno, alla vigilia delle Politiche di primavera.

Andiamo al cuore del problema.

I rapporti personali tra i leader sono pessimi, la diffidenza reciproca ha raggiunto livelli parossistici e gli elettori lo avvertono. Un accordo posticcio, di facciata potrebbe depotenziare il centrodestra, farlo crollare nelle urne; l’astensionismo e una proposta credibile fuori dai poli potrebbero minare i piedi d’argilla della coalizione.

Alla base c’è il vero problema, il detonatore di una vera bomba politica.

Meloni lo ha già detto chiaro e tondo a Salvini e Berlusconi in diverse occasioni: non ha alcuna intenzione di portare in dote alla coalizione  i suoi voti, che adesso sono tanti, senza avere prima la certezza che non verranno usati per fare altre unità nazionali o alleanze spurie. Come in effetti è successo con il governo Monti, il primo esecutivo Conte e quello attuale guidato da Mario Draghi.

Alla vigilia delle elezioni del 2018 Meloni aveva chiesto agli alleati di firmare solennemente un “Patto anti-inciucio”. Cosa che non avvenne, snobbando il cespuglio Fratelli d’Italia. Lei, sola soletta, in una giornata di pioggia, si recò all’altare della Patria per giurare che mai avrebbe fatto inciuci con la sinistra. Le risate sarcastiche attraversarono la Padania e mezzo stivale italico provenienti dal villone di Arcore e da via Bellerio. Qualcosa è intanto cambiato.

Ora non sarà più possibile deridere un partito che veleggia in maniera costante sopra il 20%. Salvini e Berlusconi, spiegano da via della Scrofa (quartier generale di Meloni, lo stesso ufficio di Giorgio Almirante), dovranno firmare con il sangue l’impegno a non scartare verso altri lidi politici, altre maggioranza: o tutto il centrodestra in maggioranza o tutto all’opposizione. Basta gioco delle tre carte. E magari tra le carte della prossima legislatura, è il leitmotiv di Meloni, spunta di nuovo l’ex presiedente della Banca centrale europea.

Tanti i campanelli d’allarme. Innanzitutto quello che è successo in questa legislatura, con le disinvolte piroette dei leghisti e degli azzurri. C’è la spinta che viene da dentro i partiti alleati a proseguire l’agenda Draghi. Non solo dall’ala aziendale e governativa di Forza Italia (Gianni Letta, Mariastella Gelmini, Mara Carfagna, Renato Brunetta, che parla di “bipolarismo bastardo”), della Lega dei Giancarlo Giorgetti, Luca Zaia, Massimiliano Fedriga. E la variopinta galassia centrista che fa capo a Giovanni Toti, Maurizio Lupi, Enrico Cesa. 

È Berlusconi stesso che non è convinto di questo centrodestra a trazione nazionalpatriottica. Nonostante lo show, durante il suo para-matrimonio, della designazione di Salvini quale leader del centrodestra. La verità è che il Cavaliere non ritiene che Matteo abbia il quid da presidente del Consiglio.

Ecco, il prossimo vertice per Meloni dovrà servire per un chiarimento di fondo da mettere nero su bianco in un documento sottoscritto da Salvini e Berlusconi. Altrimenti amici come prima, ognuno per la sua strada, con un centrodestra nuovo, a immagine e somiglianza di Fratelli d’Italia.

Se questo dovesse accadere, si potrebbero allineare gli astri per modificare la legge elettorale in senso proporzionale, sparigliando i giochi anche nel campo di Enrico Letta. Forse Giorgia lo ha già detto a Enrico: in campana, tieniti pronto. (Linkiesta)

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