Politica

Meloni spauracchio europeo? Non proprio. Ecco perché

Fratelli d’Italia, sì, ma di Europa anche? Il dubbio serpeggia nelle cancellerie del Vecchio continente: Giorgia Meloni a Palazzo Chigi sarebbe un guaio per Bruxelles? Va detto che la leader di FdI – primo partito nei sondaggi a pari merito con il Pd – non arriva al test delle urne con una fedina europea immacolata.

Questa mattina ad esempio Repubblica ha appuntato cinque date da segnare in rosso. Sono le cinque volte, tra l’ottobre del 2020 e l’aprile del 2021, in cui il partito della fiamma tricolore si è astenuto durante la votazione per il Recovery Fund e il Pnrr italiano in Parlamento. Per la precisione, due con il governo Conte-bis, tre con il governo Draghi. Un biglietto da visita che ora preoccupa chi da Bruxelles segue la campagna elettorale nello Stivale. Perché se c’è una certezza in questa torrida crisi politica è che i governi cambiano, i fondi europei per la ripresa restano (per fortuna). Ammesso che da Roma in cabina di regia vi sia chi è disposto a metterli a terra e a convincere il “banco”, cioè la Commissione europea, che non andranno sprecati.

Un test tutto da superare per questo centrodestra a trazione meloniana che negli anni scorsi non ha lesinato più di una stoccata euroscettica contro i fondi Ue, con Lega e Fdi alla guida dello scontento. Non a caso, mentre in casa Meloni l’attenzione è concentrata sulle liste da chiudere nelle prossime due settimane, la stampa europea accende un riflettore sul suo partito. Talvolta agitando lo spauracchio un po’ stantio dell’“onda nera” verso Palazzo Chigi. Altre volte con un’analisi più ponderata.

Nathalie Tocci, direttrice dello Iai, traccia per Politico.eu un quadro chiaroscurale della politica estera meloniana. Promossa con riserva sul fronte atlantista, cui appartiene a pieno titolo anche grazie al sostegno incondizionato alla causa ucraina. Un po’ meno su quello europeista: “Se l’ancoraggio euroatlantico dell’Italia potrebbe uscire rafforzato dalle elezioni, lo stesso non si può dire del suo ruolo europeo”.

Tra promesse elettorali e bandierine di partito, mentre i falchi nord-europei spingono per chiudere la finestra di solidarietà aperta durante la pandemia, il rischio di “una tempesta perfetta” – così l’ha definita il Commissario Ue Paolo Gentiloni – non è da escludere. Non è però neanche da dare per scontata. Ci sono due contingenze, infatti, che potrebbero sgonfiare lo spauracchio europeo intorno a FdI.

La prima è di natura economica e riguarda i vincoli europei. Sono due le bussole che, esattamente come con il governo Draghi, guideranno l’azione del prossimo governo. Da una parte il Recovery Fund e il Pnrr da attuare in tempi certi. Un binario stretto: con il patto di stabilità europeo che vacilla e un debito montato alle stelle durante la pandemia, fare altro deficit significa per l’Italia mettere a repentaglio i fondi per la ripresa.

Dall’altra quello scudo anti-spread cui ha fatto riferimento la presidente della Bce Christine Lagarde in una recente conferenza stampa. Cioè lo strumento che, in sostanza, consente a Francoforte di continuare ad acquistare i titoli e frenare gli attacchi speculativi. Lo scudo si attiva solo a precise condizioni o, in gergo europeo, condizionalità. Per l’Italia come per la Grecia e gli altri Paesi più indebitati può rivelarsi una risorsa preziosa. Per usufruirne, però, chi avrà le redini del governo rispettare i patti, garantendo la sostenibilità fiscale e il rispetto dei criteri di bilancio Ue. Niente procedure di infrazione con la Commissione, ad esempio. Di quelle che fioccavano ai tempi del governo Conte-1 e dei bracci di ferro leghisti sugli sbarchi. In poche parole, chi guiderà Palazzo Chigi sarà costretto, piaccia o no, a giocare secondo le regole.

La seconda contingenza è invece politica. Fare di tutti i sovranisti europei un fascio potrebbe indurre a un abbaglio. Se infatti la Lega appartiene alla famiglia politica di Identità e democrazia (Id), Fdi guida (con Meloni in veste di presidente) i conservatori del gruppo Ecr. Contro la prima – che tra le sue fila conta l’ultradestra tedesca di Afd e i lepeniani – resiste a Bruxelles un “cordone sanitario”, e non a caso il gruppo guidato dall’assai più moderato Marco Zanni fatica non poco a toccar palla nelle commissioni. Contro i secondi invece no.

Negli ultimi tempi i conservatori hanno iniziato a marciare allineati alle istituzioni Ue. Di questa manovra la massima espressione è stata l’elezione, facilitata dai voti della Meloni e osteggiata dai leghisti, della popolare Roberta Metsola alla guida del Parlamento europeo. Un’operazione in cui un ruolo chiave ha giocato il capo del gruppo conservatore a Bruxelles, l’ex governatore della Puglia Raffaele Fitto, assurto a consigliere fidato per la politica estera della Meloni e considerato un protagonista del centrodestra che verrà.

In poche parole, i canali tra FdI e Ue sono aperti, anzi apertissimi. A oliare gli ingranaggi in caso di un governo di centrodestra ci penserebbe poi Forza Italia, che sul piano europeo si muove assai meglio che su quello atlantico. Complice il contributo di Antonio Tajani, ex presidente dell’Europarlamento, tenuto in altissima considerazione dai vertici del Ppe e in ottima con il nuovo leader dei popolari, il bavarese Manfred Weber.

Un rapporto, quello con il Ppe, che in futuro potrebbe riservare qualche sorpresa. Con la nuova leadership cresce infatti la spinta per spostare sul fianco conservatore il baricentro di un partito che, dopo anni di governo con i socialisti, ha gravitato a lungo sul fianco opposto. Weber, per dire, non è pregiudizialmente contrario a un avvicinamento dei leghisti in vista delle prossime elezioni europee nel 2024. A patto che si tratti di una Lega de-salvinizzata – scenario ad oggi più vicino al genere della fantascienza – e magari guidata da quel Massimiliano Fedriga che con le istituzioni e i vertici politici europei parla e si intende. Chissà che un giorno uno spiraglio non si apra anche con il mondo meloniano. La partita resta aperta. Molto più di quanto sembri. (Formiche.net)

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