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Vescovo: “L’inno alla Madonna che ritrova la sua casa”

Gela – L’inno, composto dal maestro Salvatore Di Blasi, è una lode riconoscente alla Vergine Maria, a colei che Dio ha preposto per imparare a conoscere la grandezza della sua misericordia nel dono del Figlio Gesù. Dalle quattro strofe risalta con persistenza una frase: «sempre a Te salga un palpito di mille e mille cuor», ove si colgono alcune sfumature della fede che pervade il popolo gelese nei confronti della Madonna. A partire anzitutto dall’anelito che connota l’invocazione: quest’inno è un lungo respiro d’amore per colei che il Signore ha reso Madre della Chiesa, ovvero di quanti si rivolgono a lei non soltanto per ricevere qualche grazia, ma anche per scoprire la bellezza della fraternità cristiana, seguendo con senso di responsabilità le ispirazioni del vangelo. La figura della Madonna è motivo di devozione, nella temporalità delle nostre esistenze. A lei ci rivolgiamo «sempre», in ogni circostanza della vita, sapendo che Gesù l’ha consegnata al discepolo che egli amava perché egli l’accogliesse come parte di sé, nell’intimità della sua esistenza. E il palpito, che si percepisce condiviso, si avverte nei cuori di «mille e mille», come a dire che la fede nella Madonna, non disgiunta da quella nei confronti
del Figlio, tende a raggiungere tutti: sia coloro che nel tempo hanno maturato, grazie alle testimonianze dei padri, una devozione che dalla fede elementare è passata alla fede discepolare, sia coloro che, per istinto, sentono di rivolgersi ad una testimone di fede che per l’esemplarità di vita induce al cambiamento di rotta per esistenze, immiserite dal peccato. L’epiteto devozionale, che percorre quasi tutto l’inno, è legato alla regalità di Maria di Nazareth. È la condizione nuova di chi condivide non soltanto la partecipazione alla risurrezione di Cristo, ma anche l’intima relazione che coinvolge la Madre di Dio nell’accogliere nel suo seno colui che redimerà il mondo. Se la prima condizione è frutto della sua fede indefettibile, confermata dall’affermazione dell’apostolo, secondo cui quanti si congiungono all’amore di Cristo formano la «nuova creazione» (2Cor 5,17), la seconda mette in rilievo il privilegio del suo pieno coinvolgimento nella redenzione del Figlio, al punto che
nel piano redentivo di Dio non poteva mancare colei alla quale è affidata la mediazione delle
grazie divine. È vero che l’unico mediatore tra Dio e gli uomini è il Salvatore del mondo (cfr.
1Tm 2,5), ma è altrettanto vero che colei che gli è stata madre e discepola, in modo unico e
irrepetibile, non poteva che assidersi alla destra di colui al quale – ripete l’apostolo – è stata
consegnata la ricapitolazione di tutte le cose, «quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10).
Maria di Nazareth, oltre ad essere regina, è rammentata dall’inno nella sua condizione di
Madre, alludendo a due momenti importanti della sua esistenza: l’incontro con l’angelo
Gabriele, dal quale prende consapevolezza quello che sta per accadere, come evento irrepetibile
di grazia, estesa a tutti. La sua maternità divina, che segna la certezza dell’essere vergine, prima,
durante e dopo il parto, è il riconoscimento più grande che possa aver ricevuto una creatura
nella condizione umana. È qui che si coglie il privilegio che induce tutti noi ad onorarla nella
perfezione della sua umanità anticipatamente redenta, un’umanità che lentamente va
formandosi anche in noi, nonostante il peccato originale, per rassomigliare sempre più a colui
che amiamo sopra ogni cosa: Cristo Gesù (cfr. 1Pt 1,8). Tale privilegio lascia uno strascico
redentivo straordinario: a forza di guardare la Madonna, impegnandoci ad assimilare le sue
virtù, la nostra umanità, decaduta a causa del peccato, s’impregna di quella grazia divina che
un tempo visitò la Madonna (cfr. Lc 1,28). Qui si coglie il senso pieno della nostra devozione
mariana. A lei ci rivolgiamo non soltanto per ricevere qualche grazia, poiché la sua maternità
ci spinge ad avvicinarla nel nostro bisogno di figliolanza divina, ma anche per sentire le giuste
sollecitazioni nel cambiamento serio della nostra vita.
A questo si aggiunge l’altro momento: la consegna che Gesù fa a noi della sua Madre. Le
parole che egli rivolge alla sua mamma sotto la croce, con forte valenza testamentaria (cfr. Gv
19,27), fanno capire quello che, grazie al sì di Maria, ci è toccato in sorte: la partecipazione alla

redenzione di Dio, senza alcun merito, nella consegna di un incarico importante: fare della
nostra vita cristiana il segno visibile della Chiesa di Dio. Non era possibile istituire questa
presenza sacramentale che è la Chiesa, necessaria per la santificazione del mondo, senza un
modello perfetto di riferimento. La Madonna è stata pensata da Dio per essere sua Madre, ma
anche, in virtù di tale maternità, per essere formatrice della maternità della Chiesa. Quest’ultima
impara ad essere genitrice della fede, la cui funzione ministeriale è legata ad un preciso mandato
di Dio, imitando la Madonna in quegli aspetti fondamentali che diventano essenze di autentica
vita cristiana. Alla maniera di Maria di Nazareth infatti, ogni credente che segue Gesù è
chiamato a pronunciare il suo assenso quotidiano, lasciando piena libertà all’azione redentiva
di Dio; anzi, facendosi ciascuno promotore e segno delle operazioni di grazia che stanno
coinvolgendo il mondo, si dà a Dio la possibilità di abbreviare l’irruzione definitiva della sua
signoria d’amore (cfr. 2Pt 3,9). E sempre alla maniera di Maria di Nazareth, ogni credente, che
tende a capire il mistero del vangelo, s’impegna a fare della fraternità lo spazio ecclesiale per
antonomasia, ove si predilige l’impegno di precedere tutti nella carità (cfr. Lc 1,39). Ed ancora:
l’incontro con l’altro nella sua alterità costituisce il modo giusto per rispettare le differenze,
superare i narcisismi e decidersi una volta per sempre, stando a quello che raccomanda
l’apostolo, che nell’amore vicendevole è importante accogliersi con i sentimenti di Cristo,
imitando la sua prontezza a spogliarsi di quello che bramosamente si possiede (cfr. Fil 2,5-7).
È la ragione perché ci rivolgiamo a lei, affinché la nostra fede possa consolidarsi ed
esprimersi nella fattura discepolare. L’ultima strofa dell’inno lo rileva con forte pregnanza: «noi
t’imploriamo perdono impetraci la fede». Consapevoli delle nostre manchevolezze in ambito
ecclesiale, ove, purtroppo, si registrano tante imperfezioni nell’edificare la fraternità, sapendo
che quello che conta nella Chiesa non sono le attività, ma l’impegno per la comunione ecclesiale
che il Signore ha lasciato come eredità a tutti noi, ci rivolgiamo alla Madonna con accorato
desiderio, affinché, oltre alla misericordia tanto agognata per il perdono di questi peccati che
brutalmente offuscano l’unità della Chiesa, ci conceda di credere come lei, di essere umili
confessori di una fede che imita la martirialità della sua testimonianza. Quando Maria di
Nazareth andò a visitare la cugina Elisabetta, espresse un gesto che deve segnare la nostra
memoria credente: quello che conta nella vita cristiana è servire l’altro, in ogni circostanza e al
di là dei ruoli che ognuno è chiamato a svolgere nella propria vita. Sì, perché quello che conta
non è quello che siamo, ma il dono di quello che siamo per rendere felici le persone che il
Signore ci fa incontrare. E questo perché non si dimentichi che il nostro compito è rendere la
Chiesa, che siamo noi, rassomigliante alla Madonna, poiché – afferma Isacco della Stella,
monaco cistercense († 1169) «che ciascuna anima fedele è sposa del Verbo di Dio, madre di
Cristo, figlia e sorella, vergine e madre feconda […]. Cristo rimase nove mesi nel seno di
Maria, rimarrà nel tabernacolo della fede della Chiesa fino alla consumazione dei secoli; e,
nella conoscenza e nell’amore dell’anima fedele, per i secoli dei secoli» (Sermo 51: PL 194,
1863.1865).

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