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Scuola abbandonata, perché spendiamo così poco per gli studenti?

Il capitale umano e il talento non sono una risorsa scontata. Come l’ambiente, la salute e le risorse naturali, richiedono uno sforzo ed un progetto per assicurare che siano protetti e possano crescere in maniera adeguata rispetto ai tempi, contribuendo al benessere del nostro Paese. Se per la salute e forse per l’ambiente ne abbiamo colto, in maniera traumatica, l’importanza non è così per il tema educativo: il luogo di creazione più profondo del capitale umano e del talento — che si chiama scuola — sembra infatti un tema marginale nel dibattito sociale e solo grazie al Pnrr viene rimesso al centro delle decisioni di politica economica e sociale. Questo è fondamentale perché i dati del nostro sistema ci vedono un passo indietro in Europa. Dimostrano che la creazione del capitale umano e del talento non sono un fatto automatico, scontato e senza limite. Un passo indietro che spesso viene colmato eccellenze sul territorio, dal contributo volontaristico di tanti docenti e dal ruolo delle famiglie. Cosa emerge dal confronto internazionale?

L’organizzazione e la spesa (bassa)

Se guardiamo al lato della struttura organizzativa dell’istruzione primaria e secondaria, come si vede nella tabella, la spesa del nostro Paese si attesta sui 57 miliardi complessivi, dato stabile nel 2018 e nel 2019, e con una crescita inferiore al 10% se guardiamo al dato del 2010. La Germania ha speso 95 miliardi nel 2018 diventati 100 nel 2019, la Francia 87 miliardi nel 2018 e 89 miliardi nel 2019. Entrambi i paesi hanno visto crescere questa voce di spesa del 15% negli ultimi 10 anni. Inoltre, il dato italiano, se rapportato al Pil, è inferiore alla media europea: 3,21% è la percentuale del nostro paese e 3,33% quella europea. L’Italia è indietro anche valutando la spesa per studente. Il nostro paese spende infatti 7.689 euro per studente, di poco al di sotto della media europea che è di 7.739 euro per studente, ma ben al di sotto dei 8.566 euro per studente della Francia e dei 10.141 euro della Germania.

I risultati

Se guardiamo ai risultati della scuola, la preoccupazione cresce. Per i dati dei Neet (Neither in Employment or in Education or Training) il nostro Paese è, in negativo, fuori scala in qualsiasi confronto. Se guardiamo alla fascia 15-19 anni, come si vede nella tabella, i Neet italiani sono nel 2020 l’11,1% della popolazione di riferimento, ben lontana dalla percentuale europea (6,3%) e dai dati di Francia (6,1%), Spagna (7,9%) e Germania (5,2%). La stessa valutazione emerge anche per la fascia 18-24 anni, ove la percentuale di Neet italiani sale al 24,8% nel 2020, rispetto ad una media europea del 14,4% e a quella ben più bassa della Germania (8,7%) e sempre lontana dai livelli pur preoccupanti di Francia (15,4%) e Spagna (18,1%). Altrettanto preoccupante, accanto alla persistenza di questi dati per l’Italia è anche la recente indagine sui test PISA degli studenti italiani che confermano un posizionamento sempre inferiore alla media degli stessi paesi Ocse.

Fuori dalle aule compensano le famiglie

A questo quadro, si aggiunge il fatto che intorno alla scuola esiste e si sviluppa in maniera intensa un eco-sistema parallelo che va dall’attività di ripetizione, di preparazione linguistica e informatica, di orientamento, di soggiorni all’estero. Se da un lato questo è normale e in molti casi utile — e la qualità di tante iniziative è fuori discussione — dall’altro lato segnala che le carenze della scuola sono colmate di fatto dalle famiglie con scelte individuali. E questo diventa inevitabilmente un fattore di crescita spaventosa delle diseguaglianze e dell’esclusione. Ci sono quindi tutti gli elementi per mettere mando ad un progetto vero non tanto di riforma ma di ripensamento nel modello di scuola più efficace per il nostro Paese.

Il Piano di ripresa e resilienza

Il Pnrr, nella Missione 4 «Istruzione e Ricerca», dedica complessivamente 30,88 miliardi al tema educativo e della produzione di conoscenza. Di questi, 19,44 miliardi sono destinati al potenziamento dei servizi di istruzione, dagli asili nido alle Università. Al di là degli investimenti e del denaro, che sono indispensabili come i 10,57 miliardi dedicati alle infrastrutture scolastiche, il Pnrr ha il merito, come in tanti altri campi, di indicare una strada e un metodo di lavoro procedendo per progetti e per obiettivi poi da monitorare nel loro raggiungimento.

Come ripensare la scuola?

Se guardiamo al metodo, i punti fermi di un ripensamento della scuola devono basarsi su quattro aspetti. 1) Il primo è dare ai nostri ragazzi e ragazze una preparazione adeguata rispetto ai tempi. Questo non significa eliminare i punti di forza della tradizione dei nostri licei ma aprire con decisione lo spazio alla conoscenza (vera) delle lingue, dell’economia e del diritto, di computer science. L’importanza di queste discipline è oggi così decisiva che se la scuola non offre queste possibilità, inevitabilmente la soddisfazione va trovata al di fuori.
2)Il secondo è quello dell’inclusione. Il dato dei Neet è così preoccupante che appare chiaro come la scuola non possa più permettersi di perdere studenti per strada come se esistesse una soluzione automatica al problema. La soluzione non esiste più e alimenta disoccupazione, emarginazione e tensione sociale. La riflessione va fatta e occorre disegnare percorsi differenziati di recupero, anche individuali e di accoglienza con un’apertura della scuola per tutto il giorno e per i mesi estivi. Il Pnrr dichiara che occorre pensare ad una scuola sempre aperta, ma occorreranno ben altre risorse oltre a quelle europee.

3) Il terzo è quello della coerenza e dell’integrazione con lo sbocco con la fase successiva rispetto alla scuola secondaria, rappresentata dall’Università e dal mondo del lavoro. Se guardiamo all’Università, occorre ripensare l’ultimo anno della scuola secondaria — come avviene nel mondo anglosassone e per certi versi in Francia e Germania — trasformandolo in un periodo di orientamento, di creazione di percorsi differenziati in base alle scelte dei singoli, di preparazione ai test di ammissione, di conseguimento delle certificazioni che l’Università richiede. L’ennesima riforma estemporanea dell’esame di maturità è l’ultimo e il meno importante dei problemi a cui pensare. Se guardiamo al mondo del lavoro, il contenuto delle scuole tecniche deve essere maggiormente allineato — e adattato continuamente — a quelle che sono le esigenze profonde dei vari settori industriali e commerciali. Anche qui l’ultimo anno di preparazione deve essere ripensato con l’introduzione di stage di lunga durata che possano costituire un ponte effettivo con il mercato del lavoro.

4) Il quarto è quello della valutazione. Tema difficile ma va fatto il salto una volta per tutte e accettare che le scuole abbiano obiettivi e siano misurate su questo. I risultati di prove di valutazione omogenee su livello nazionale degli studenti, la capacità di ritenere studenti «difficili» o «problematici», i dati di placement nel mercato del lavoro (per gli istituti tecnici e le scuole a orientamento professionale) e di successo nei primi anni del percorso universitario, sono esempi concreti di misurazione. Il rischio più grande che corriamo oggi è quello di non agire, lasciando la scuola come un tema periferico rispetto ad altri e già risolto dal Pnrr. Nell’immediato non accadrebbe probabilmente nulla ma sarebbe un colpo decisivo all’impoverimento dei talenti e ne pagheremmo il conto più avanti, e per sempre, a livello di paese.

(Stefano Caselli,

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