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Campagna bipolare. I cinque errori di Letta che faranno crescere Meloni

Chi sta dando una bella mano a Giorgia Meloni è Enrico Letta. Non è un refuso. Ovviamente il segretario del Partito democratico non ne è consapevole, come scrive su Linkiesta Mario Lavia, ritenendo anzi che puntare tutto sul duello tra il Pd e la leader dell’estrema destra sia una tattica vincente. Ma sbaglia. Ecco cinque indizi del suo errore.

1) Con la sua impostazione bipolare Letta contribuisce non poco a erigere il piedistallo sul quale la Meloni già si considera assisa per volontà di Dio e della Nazione, ebbra di sondaggi che al massimo sono in grado di fissare solo l’istante di una situazione in movimento, e suggestionata dall’effetto bandwagon che Ennio Flaiano traduceva con il motto sugli «italiani che vanno sempre in soccorso del vincitore».

2) Secondo questo schema, nella campagna mediatica quotidiana il segretario dem sta inseguendo l’avversaria, rischiando la subalternità e incappando in infortuni come quello del tweet «viva la devianza» che di fatto ha assunto l’orribile concetto espresso dalla Meloni. Lui la deve ignorare, semmai, non controbattere ogni momento.

3) Letta soprattutto commette un errore dimenticando una regola fondamentale della politica, quella che impone una particolare attenzione alle contraddizioni dello schieramento avversario. Al Nazareno forse avranno letto il pezzo di ieri di Francesco Verderami sul Corriere della Sera nel quale si mette in rilievo come Silvio Berlusconi, e non solo lui, non dia affatto per scontata la premiership di Giorgia: e se la negano Berlusconi  e probabilmente i vari Maurizio Lupi e Giovanni Toti per tacer di Matteo Salvini appare ancora più incredibile che sia proprio Letta ad assegnarla a Giorgia, legittimandola come presidente del Consiglio.

4) Noi aggiungiamo che nel caso di un incarico alla leader di Fratelli d’Italia, non sono basse le possibilità che i suoi alleati le facciano saltare il tentativo di formare il governo. L’errore del segretario del Pd, come abbiamo rilevato anche a proposito della sua preferenza per un confronto televisivo a due, sta nel considerare quello italiano come un sistema bipolare mentre invece non solo sono in campo Terzo polo e Movimento 5 stelle (seppure quest’ultimo sia abbastanza fuori dal gioco) ma anche partiti dentro la destra, soprattutto Forza Italia, che (più per calcolo che per idealità) non è melonizzabile. Non sappiamo come andrà l’operazione-Calenda ma questi ha ragione nel voler attrarre gli elettori del centrodestra non meloniani, mentre il segretario del Pd non sta facendo nulla al riguardo.

5) Letta cade in una contraddizione non da poco quando rivendica il fatto che il suo partito è l’unico a non mettere il nome del leader nel simbolo perché «noi siamo una comunità», e che questo dimostra che il Pd è «parlamentarista»: la cosa potrebbe anche avere un senso ma in un sistema prettamente proporzionale e dunque totalmente fuori dallo schema bipolarista che egli crede viga nel nostro Paese.  Insomma, se volesse essere conseguente, Letta, per accreditare la disfida «tra noi o la Meloni», il suo nome lo dovrebbe proprio mettere, ponendosi davvero come lo sfidante di Giorgia, ma invece così dà l’idea bislacca di competere senza competere. 

Gli elettori si confondono: se non voglio la Meloni a palazzo Chigi, qual è l’alternativa? Enrico Letta? E chi lo sa. Non è un caso se qualche sera fa l’ottima Elly Schlein alla domanda su chi fosse il candidato presidente del Consiglio ha risposto: «Bella domanda».

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