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Challenge: il gioco che ha portato una bimba alla morte

Ci sono ragazzi che si distendono sui binari; ragazzi che si tagliano; giovani che non mangiano o mangiano troppo. Si annoiano. Cercano il brivido. Normale. Chi non lo ha cercato, specialmente da giovanissimi. Ora arriva un altro spettro.

Cos’è la Challenge. Quella che ha portato Angela alla morte a soli dieci anni. Se cerchiamo il termine nel vocabolario si legge che è  una gara sportiva che assegna periodicamente un certo titolo o trofeo. Challenge è un termine mutuato dall’inglese che assume in italiano molteplici significati. In particolare, in ambito sportivo significa sfidare qualcuno o una decisione di qualcuno. Nella prima accezione challenge diventa una vera e propria sfida. Ad esempio nel tennis il challenge round indica il turno di qualificazione che un giocatore male classificato deve superare per potere entrare nel tabellone principale. Il secondo significato di challenge è diffuso soprattutto negli sport americani, ma sta lentamente prendendo piede anche in altri, come il tennis. Tipico esempio di challenge si ha nel football americano dove ad ogni allenatore è concesso, per un massimo di due volte in una stessa partita, di ricorrere all’instant replay quando ritenga che la decisione presa dal giudice di gara non corrisponda al vero. Ma per ogni cosa, gioco, vita ci sono le eccezioni. Stavolta l’eccezione arriva dal mondo virtuale e da Tik tok.

La parola va oggi allo psicologo Calogero Lo Piccolo:

“La morte di una bambina di 10 anni, a Palermo, collegata forse a un gioco perverso sui social, impone alcune riflessioni. Cosa cambia, in fondo, rispetto alle prove di coraggio che i bambini di qualche generazione precedente sostenevano tuffandosi per esempio da una scogliera? Probabilmente la circostanza secondo cui il pericolo, per via di un utilizzo non corretto dello smartphone, può trovarsi direttamente nelle nostre case. “Entrare dentro i fatti di cronaca è sempre molto difficile, soprattutto quando si configurano come tragici incidenti di percorso di cui poco sappiamo. Forse è più utile – spiega lo psicologo e psicoterapeuta Calogero Lo Piccolo – riflettere sul terreno che ha reso possibile, non determinato, quel particolare incidente. Perché gli incidenti per definizione fanno parte della quota di precarietà dell’esistenza. In questa vicenda il terreno è formato dal mezzo, i social, e dall’uso dello stesso”.

Dunque il potenziale pericolo è legato allo strumento o all’utilizzo che se ne fa? “Discutere dell’ipertrofia assunta dai social, ma dalla vita in virtuale in genere, in questa particolare contingenza storica diventa persino ridondante. Ne siamo tutti catturati, ben al di là delle soggettive intenzioni. Più interessante – aggiunge lo psicologo nonché consigliere dell’Ordine degli psicologi della Regione Siciliana – potrebbe essere cercare di riflettere su questi particolari giochi cui si partecipa attraverso i social: la challenge, la sfida. Che certamente non nasce dal social e che tra ragazzini e non solo si sono sempre svolte. A volte con esiti ugualmente tragici. Prove di valore e coraggio come le gare di tuffi da alte scogliere”.

Una tragedia come quella che si è consumata nella Kalsa, cuore del centro storico palermitano, ci conduce probabilmente verso alcuni quesiti. “Cosa colpisce quindi – si chiede Lo Piccolo – rispetto a un tragico fatto come la morte accidentale di una bambina di 10 anni? Che il rischio arrivi dentro casa? Che tutto avvenga in solitudine? Che crolli l’illusione della protezione e della sicurezza che un genitore o un adulto può offrire? Probabilmente tutto questo assieme, e molto altro. Forse però sarebbe utile riflettere su quanto la cultura di esaltazione della competizione in cui tutti ci troviamo immersi possa fare da fertilizzante per l’assunzione di rischio soggettiva”.

Uno dei problemi potrebbe essere legato a ciò che l’avvento dei social hanno determinato nella nostra società. “La competizione non è più considerata nella cultura contemporanea come un problema in sé, si preferisce rimuovere tutti gli aspetti distruttivi – conclude lo psicologo – che potenzialmente sono sempre insiti nella stessa. Siamo tutti dentro un reality show che richiede performance ammirevoli, dentro un talent in cui guadagnare voti. Dentro la dicotomia figo-sfigato. Tutti partecipi, complici e vittime allo stesso tempo. I social hanno solo moltiplicato all’infinito la platea e i palchi. E con questo facciamo i conti, anche negli esiti estremi”.

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