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Ponte Morandi, Genova, 4 anni fa, alle 11,36 il crollo atteso mezzo secolo: poi 2 anni di ignavia dei politici

Ponte Morandi, Genova, 4 anni dopo. Nella Radura della memoria, sotto il sole dell’anticiclone africano, giocano imperterriti i bambini del quartiere più raccontato di questi quattro anni infiniti.

Sono in maggioranza figli di immigrati, equadoregni, peruviani, boliviani, insomma latinoamericani, immigrati in questo cuore postindustriale della Valpolcevera, dove il ponte che oggi si chiama san Giorgio fa solo un po’ di ombra.

Ci sono le lapidi dei morti travolti dalla caduta dell’altro ponte, il Morandi, che quattro anni fa a questa ora, agosto 2018, tremava già ma facevano finta di non saperlo.

Cì sono i preparativi del quarto anniversario con i divieti di sosta, c’è il traffico di sopra che riempie le nuove corsie. Sono passati su quell’asfalto 38 milioni di veicoli in due anni. San Giorgio ha preso il posto del vecchio ponte con la sua aria più modesta, più sobria. Quasi chieda il permesso di scavalcare la grande valle una volta industriale. Segnata ancora dalla tragedia del 14 agosto 2018.

La Val Polcevera dopo il crollo del pinte

Ora è un mix di grande distribuzione, di raccordi stradali, di fabbriche dismesse, di vecchi quartieri finalmente resuscitati dal dramma di quattro anni fa, ma ancora segnati, Con i murales colorati che cancellano il grigio di Certosa, l’area clou della tragedia e della ripresa, via Fillak, via Iori, la chiesa di san Bartolomeo, dove vengono a celebrare nel giorno dell’anniversario per ricordare e per pregare con il vescovo frate, Marco Tasca sull’altare.

Quattro anni e guardi in su, dove la coda di auto e di tir diretta al porto di Genova è quasi ferma e ti ripeti, per l’ennesima volta, quanti morti sarebbero stati, invece dei 43 scolpiti sulla lapide lì sopra, se il vecchio ponte di Riccardo Morandi fosse crollato con quel traffico e non nel deserto del nubifragio di quattro anni fa.

Quattro anni e guardi le case di via Porro, dietro la Radura, dove da vecchio cronista andavi i giorni dopo la tragedia e c’erano le case vuote per la fuga degli abitanti. E conti quelle ancora in piedi, ma chiuse, sprangate in attesa di ristrutturazione, con pezzi di vita che spuntano ancora dalle persiane semi aperte. E quelle, più in là ancora “vive”, con un bucato appeso. Con un ragazzino sul poggiolo che guarda i giochi dei suoi amici dall’alto, in questa canicola di fuoco dell’estate 2022.

Così diversa dal 2018 e anche dal 2020 dell’inaugurazione del nuovo ponte, con tutte le autorità schierate là sopra, da Mattarella, a Conte, ai ministri, agli onorevoli, alla barba bianca di Renzo Piano.

L’angoscia non è finita

Ti viene come una stretta di angoscia, perché scopri che non è finita, che quella ferita è ancora aperta. E non solo per il ricordo, per la memoria dei parenti delle vittime, che con la voce della loro rappresentante, Egle Possetti, urlano ogni giorno il dolore e l’ingiustizia.

Non è finita quattro anni dopo e c’è quasi più angoscia dei giorni dopo, quando era lotta a mani nude per salvare il salvabile, tra le macerie cadute dall’alto, quando il sindaco urlava: “Genova non è in ginocchio”.

Non è finita due anni dopo, quando l’arcobaleno dipingeva il cielo sopra il nuovo ponte, che era stato appena ricostruito e lo inauguravano con i discorsi e con le bandiere.

Non è finita perchè giustizia non è stata ancora fatta e perchè molte ingiustizie ancora indignano. Il processo con 59 imputati e 1200 parti civili è appena incominciato e riprenderà il 12 settembre. Andrà avanti almeno due anni, tre udienze alla settimana, la tagliola della prescrizione sospesa come un cappio sul suo corso.

Non è più tempo e modo di maxi processi, che non arrivano mai in fondo. La giustizia italiana, la sua parte sana, stanno studiano come fare. Ma intanto questo, di processo, disseminato in tre aule, sparso per la città, rischia molto. Rischia anche il lavoro miracoloso degli inquirenti della Procura di Genova, arrivati a concludere l’istruttoria scavalcando difficoltà più alte delle macerie del ponte crollato, rischia.

L’inchiesta sul crollo del ponte Morandi

Montagne di files, di intercettazioni, montagne di carte di perizie tecniche su ogni centimetro del cemento precompresso, che era l’anima del Morandi, sono agli atti. Ma servirà o il tornado della prescrizione cancellerà tutto in una sequenza lampo?

O come un serpente che striscia all’indietro incomincerà dai reati meno gravi, omissione di atti d’ufficio, falso, per arrivare a quelli decisivi, omicidio colposo, attentato al sistema dei trasporti, strage?

La linea di difesa dell’imputato numero uno, Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Aspi, la società della holding Atlantia, che si occupava della concessionaria, è già chiara. Crollo per difetto di costruzione.

Difetto di costruzione commesso tra il 1964 al 1967 della realizzazione, inaugurata nel settembre di quell’ anno con la Lancia Flaminia decapottabile dell’allora presidente della Repubblica, Giovanni Saragat. “Apriva”il Morandi, il ponte del futuro, il nostro ponte di Brooklin (come lo chiamavano con orgoglio in Valpolcevera), la scommessa per il futuro non solo di Genova, ma di tutto il sistema infrastrutturale italiano.

E i 55 anni seguenti, gli omessi controlli, gli allarmi disattesi, come quello iniziale del 1989, arrivato dall’ Anas che aveva già denunciato: “Quel ponte rischia!!!”.

E poi tutti i controlli mancati, che dal 1991 toccavano ai privati, succeduti allo Stato nella condizione di concessionari.

Le intercettazioni che fotografano il modo di verificare la stabilità, usando quello che beffardamente era chiamato “stile miss Italia”. Si dava il giudizio come nei concorsi di bellezza, osservando al volo con un’occhiata le condizioni non della bellezza della modella, ma della solidità delle arcate, degli stralli, dei giunti tra un pezzo di ponte e l’altro.

Ricordo quando passavo su quel ponte

Ricordate quando passavate tra un giunto e l’altro percorrendo il Morandi? Quei colpi sotto le ruote, che facevano pensare: “Tiene!”. Invece “sotto” non teneva, il cemento incominciava a cedere, il ferro si arrugginiva nell’anima delle campate e degli stralli.

E il 14 agosto 2018, si sarebbe, alle ore 11,36, sotto quel temporale con nubifragio, spezzato come un grissino, inghiottendo quelle 43 vite, che potevano essere di tutti. La mia che c’ero passato dieci minuti prima. La tua, che ci passavi ogni settimana. Quella dell’autista bulgaro in arrivo con il suo carico di containers ogni settimana a Genova.

Poi c’è l’altra ingiustizia, quella della concessione che ministri e politici in cerca di passerelle avevano urlato, subito dopo la tragedia, doveva essere immediatamente revocata.

Giuseppe Conte, allora premier era venuto subito a intimare: via la concessione ai Benetton!

E lo aveva ripetuto il giorno dei funerali, davanti alle 17 bare delle esequie pubbliche, in quell’incubo della Fiera del Mare, dove si piangeva la tragedia civile più choccante dopo quella del Vajont.

Il ministro visionario

E non solo loro dei Cinque stelle, allora al governo e a capo del ministero delle Infrastrutture. Lo aveva ripetuto l’uomo del giorno di oggi, Luigi di Maio, allora nella fase gilet gialli. E lo aveva ripetuto Danilo Toninelli, allora ministro alle Infrastrutture. Che poi, esaltato, aveva dipinto il futuro del ponte come quello di una struttura “umana” con piste ciclabili, zone turistiche, spazi di svago. Mentre Grillo, l’”elevato” sponsorizzava un suo amico, architetto bergamasco per la ricostruzione….

È finita quattro anni e tre governi dopo, Conte 1, Conte 2, Draghi, che Atlantia, la società a maggioranza Benetton, ha mollato la concessione ed è stata liquidata con la modica cifra di 8 miliardi.

“La morte di 43 persone è stata un ottimo affare”, ha titolato l’articolo di Giorgio Meletti, giornalista molto preciso e molto documentato, sull’operazione alla fine conclusa nel 2020. Che ha scavato a fondo sulla dismissione della famigerata concessione.

Ci sono stati persino studi di Mediobanca, che avevano stabilito come un contenzioso della Stato con Atlantia sarebbe costato alle casse pubbliche circa 10-11 miliardi. E allora? La tesi dei legali Benetton era che una revoca prima della sentenza della Cassazione avrebbe messo a repentaglio non solo la sopravvivenza di Atlantia, ma anche la stabilità dei mercati finanziari.

Meletti scrive anche che c’è del vero in quel ragionamento. Atlantia era una holding con molti debiti e quindi, se fossero dovuti venire meno i flussi copiosi di Aspi ( la società concessionaria), si sarebbe potuto verificare un crollo del pilastro fondamentale. Con un default paragonabile a quello di Callisto Tanzi con la Parmalat, targato 2004.

Davanti a un nodo simile che ha fatto la politica italiana? Ha dato il peggio di sé, quando dopo il crollo del Conte 1 e il suicidio di Salvini al Papeete, il Conte 2 ha schierato al ministero Paola De Micheli, piddina autentica, che su questo caso ha temporeggiato all’infinito.

La partita si era conclusa nel luglio del 2020, dopo il lock-down e i rinvii infiniti della signora ministra.

Atlantia ha avanzato la sua offerta di 3,4 miliardi di misure compensative a carico Aspi, ha aggiunto rafforzamenti dei controlli e altre misure. E così, in fondo a questo calvario, c’è stato il colpo di scena: se non si può togliere Aspi ai Benetton, allora gliela si compri.

Arriva in questo modo Cassa Depositi e Prestiti e poi il fondo Blackstone. La maledetta concessione vola via, ma Atlantia incassa 8, 2 miliardi. La lunga attesa si è definitivamente consumata.

Lasciamo da parte i seguiti come le manovre di Borsa sul titolo Atlantia post vendita, le rivelazioni (da dimostrare) delle fughe di capitali verso l’estero dai conti bancari personali del maggiori imputati del processo che, temendo una condanna, si sarebbero “alleggeriti” dei capitali.

Sotto il caldo asfissiante la Radura della memoria ci si prepara alle cerimonie dell’anniversario, marce, concerti, proiezioni e alla fine, alle 11,36 del 14 agosto 2022, la celebrazione vera e propria.

Quattro anni sono tanti e pochissimi, guardando i fiori che appassiscono sul “Ponte delle ratelle”, dove per questo tempo i parenti delle vittime, ogni 14 di ogni mese, si sono ritrovati, perchè la memoria non si disperda.

“Sola la verità può portare un po’ di luce”, dice Emmanuel Diaz, fratello di Henry, volato di sotto quel giorno terribile. Lui, colombiano, non si è più mosso da Genova. “Aspetto la giustizia”, dice, fermo come una sentinella sotto il ponte. (blitzquotidiano)

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