Parvenu

Parvenu. Giorgio Ortona, la pittura come luce, il disegno come destino.

Ho conosciuto Giorgio, nel lontano ‘98, quando, nel freddo Gennaio, periodo dell’ artefiera di Bologna, mi telefonava, dopo avermi visto esposto. Non ci conoscevamo ancora, ma lui, coraggioso, con quel guizzo romanesco, in tutto gergo di pittore di razza, sapevo già, di averlo frequentato per la sua dichiarata conoscenza e consapevolezza sulla figurazione che, ci avrebbe visti sempre più amici.

Dipinto su tavola

Ricordo, fu immediata intesa, tra due pittori si, ma ossessivi disegnatori, che, amano accalappiare immagini con la fotografia, quasi, come divoratori visivi da reportage.
Due latini, meridionali in senso figurato, ma con tutta la ricerca stilistica dei più difficili artisti figurativi europei e incuriositi dalla stessa luce che si vede nei nostri dipinti o disegni(Giorgio come me, disegna come se dipingesse) . Da lì, mi incuriosii, e volli approfondire la sua arte, sapevo che Giorgio mi avrebbe raccontato e arricchito molto , e così fu. Egli, era già reduce dei laboratori estivi con

Dipinto su tavola

LopezGarcia in Spagna, fortuna la sua, averlo conosciuto, uno dei maggiori artisti viventi che peraltro lo recensì. Ma, in un successivo anno, d’estate questa volta, l’artista romano(che poi tanto romano non è, più siciliano per me, forse peninsulare di poetica), venne a trovarmi a Gela con la propria compagna Letizia (erudita poetessa di successo, forse musa ispiratrice). Fu intesa da subito, lunghe chiacchierate, forse noiose per le corrispettive signore, e mia figlia Costanza, poco più di due anni, colpita dalla strana valigia di Giorgio, piccola, ma metallica, forse utilizzata per trasportare la macchina fotografica, quanto nelle nostre passeggiate a Macchitella(quartiere di Gela), a parlar di pittura, si facevano le ore piccole. Erano anni di memorie e profumi estivi, quelli che ad oggi ci portiamo ancora.

Dipinto su tavola

Ricordo pure, che negli anni a seguire, lo andai a trovare spesso a Roma, e nella desolata estate della, metropoli, girammo un po’ di musei minori di Roma, per molti sconosciuti, in cerca di autori a noi di riferimento. Ricordo quell’anno come di una capitale afosa e melanconica del tempo, del suo sedimento storico molto seducente. Ma parlando di Giorgio Ortona artista, è una dimensione vulcanica, un continuo divenire. I suoi periodi creativi, sono multiformi ma sempre di matrice umanista. Ricordo pure, la sua personale in Sicilia, su invito di Cassiano Scribano (mio primo gallerista e scopritore), il quale, se ne innamorò così tanto del suo linguaggio che mi ringraziava orgoglioso. Ma Giorgio, artista di contenuti e stazza, non ha bisogno di biglietti da visita. Egli, è come me, ostinato nella figurazione,

Dipinto su tavola

sempre di controcorrente, ma purista nei materiali: disegni a matita su tavole rase a gesso (quello raffinato dal marmo), alle coloriture di velanti macchie che ne rivestono il disegno come una sorta di equilibrio visivo e lacerato dal dolore del quotidiano, rappresentare l’uomo, nelle sue tensioni e movenze più normali, e qui la grande eccezionalità e rarefazione, una lezione . Per certi versi, Giacometti, riluttante dei surrealisti, suoi ex amici e nemici dopo, trova “rifugio” in una nuova figurazione, che, ne espresse e respirasse i grovigli di un ritorno al disegno, non capito immediatamente, poi, si ostina nell’ossessività di ritratti psicologici direi, ma tanto frammentato, quanto costruito nei ripensamenti, sfociare in una pittura chiaroscurale, sospesa tra disegno e materia, il suo nuovo linguaggio oltre il surrealismo.

Dipinto su tavola

Per Giacometti, il surrealismo non era mai finito, gli esseri lungiformi, sono l’antromoporfia delle ombre, quelle che proiettano l’anima degli esseri: il mistero. Ma il maestro svizzero, lo dice con l’archetipo rinascimentale e compositivo, quasi da nuovo classicismo, la sua modernità è questa. Tutt’altro che scuole o correnti insomma, e nel caso di Giorgio Ortona, vi è questa stessa sottile tensione, sospesa tra una tradizione , intesa nel connubio figurale del novecento, del cinema e della fotografia, la propria grafologia, un segno, che, ne rivela, squarciando elementi come corpi, analizzandoli come un chirurgo, recide membra, in quel respiro diffrattivo della luce che poi ne rivela la sua immagine. Non tralasciando le banalità di una società, l’artista romano, ne fa un segno dei contenuti, un realismo, quello del presente, che, non solo si disincanta nel ritratto ma ne assume i connotati di un consumo, quello di una società sempre più fluida.

Dipinto su tavola

Insomma, denunce sociali si, ma restituite da una armonia compositiva quasi musicale e poetica, come del resto è compito di noi artisti. Un umanesimo dunque, che, mi fa pure pensare a maestri predecessori, il romano Renzo Vespignani, oggi un po’ dimenticato, forse per fisiologico calo post mercato , di cui, lo stesso Giorgio, poi, ne trae alcune tensioni: le periferie romane, quelle lacerate come corpi squartati, senza vita ma con tutta l’anima del sud dentro, in infinitesimi segni dell’ossessione osservativa, del disegnatore esistenziale,

Dipinto su tavola

tra suoni di sirene e caos metropolitani in quel di Roma, fatta di persone bonarie, veraci ed ospitali quanto romantici esistenze. I suoi palazzi variopinti, abbacinati di luce , ne scandiscono umori e drammi, e Giorgio lo sa, perché egli, non ama clamori figurali, nè vuole descrivere luoghi comuni, a lui basta ciò che vede e vive, per dire che in ogni luogo si è dispersi, e, in ogni luogo, ci si può raccogliere, messaggio ai noi tutti, e senza alcuna appartenenza. Di recente, ne ho visto di sue opere, molto intriganti, quelle dei turisti della domenica, in quel di Trevi, nella banalità dei selfie, fino a piccole nature morte di sapore pop: un mandarino, aperto nelle sue membra , forse femminili per metafora, ma carichi di passione, tra colori cangianti e colanti su tavola liscia, ne segnano la sensuale pittura rossastra sui grigiori della matita sottostante. E queste piccole tavolette, che, sembrano grandi formati, per come sono state affrontate in tutta armonia, i loro bianchi, come vuoti, ci interrompono e riconducono a precisi equilibri visivi, a mondi nuovi e inediti.

Dipinto su tavola

Spesso, mi rivedo a casa, un suo disegno, un suo regalo di molti anni fa, quella matita che, non è altro che materia asciutta, graffiante quanto fragile nelle linee, venir fuori da una oscurità dei tempi, quella delle periferie di Roma Termini, quanto a Gela come a Tripoli, suoi luoghi ispiratori, in Libia poi ci nacque, e per dirci che, il nostro destino è ovunque, ove ne troviamo passione per la vita, quella, che noi, artisti peninsulari, ne cogliamo attraverso la luce, nostro nutrimento e destino.

 

 

 

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